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Ad Astra

Regia di James Gray vedi scheda film

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La recensione su Ad Astra

di lussemburgo
8 stelle

È sempre la famiglia la centro degli interessi di James Gray, regista colto e letterario di film tormentati e silenziosi e dai protagonisti arrovellati e incerti. E anche tra le stelle, tra i pianeti del sistema solare, è ancora il legame familiare, l’affetto inespresso o negato, a tessere la rete che imbriglia i personaggi in un tessuto di dolore e ansia, di speranze e rancori, di silenzio.

Dei raggi stano colpendo la Terra e rischiano di danneggiare strutture e atmosfera, tanto da dover organizzare una missione esplorativa di cui fa parte anche Roy McBride, scelto perché le anomalie sembrano originarsi da una struttura risalente ad una vecchia missione di cui faceva parte il padre, morto da eroe decenni prima.

Il regista americano racconta così l’odissea interplanetaria di un uomo alla ricerca delle sue radici e dell’ultimo saluto a un passato che non si è mai trasformato in futuro e che lo ha circondato di mesta solitudine. Vissuto nell’ombra di una fama derivata e di un eroe che diventa d'improvviso un pericolo, l’astronauta di seconda generazione McBride ha trovato nel silenzio e nel gelo dello spazio una compagnia migliore della propria e di quella offerta dai suoi consimili, e offre a Brad Pitt un’interpretazione in totale sottrazione, ammantata di tristezza e rassegnazione, giocata con lo sguardo e con rughe altrove nascoste.

Nel viaggio da e verso casa, sia intesa come il pianeta che come il residuo di famiglia ancora in vita, l’astronauta non troverà alcuna felicità né sollievo, ma la necessità di portare a compimento la missione e svolgere sino al termine il proprio compito di piccolo operaio di un maggiore ingranaggio. Il mondo attorno a lui rimane confuso, non definito appieno e forse nemmeno compreso nella sua interezza, lasciato ai margini perché poco interessante per un protagonista che si lascia vivere e poco controlla, tra pianeti minacciati, satelliti contesi, pirati spaziali e tradimenti mortali.

Grey priva lo sguardo di Pitt della sua ben nota impertinenza e ironia, rievocando una certa emotività da cercare sulla superficie delle immagini e dei corpi, come in Tree of Life di Malick. La cinefilia di primo grado del regista gli impone, inoltre, di sintetizzare omaggi e citazioni all’interno del film stesso, materiale grezzo da immergere in un contesto originale, senza quell’ansia del riciclo manifesto che abbonda tra i coetanei colleghi, mantenendo la cadenza della classicità. Così Grey spazia dagli anziani Cowboy siderali di Eastwood (recuperando Donald Sutherland) per intercettare l’abisso esistenziale di Nolan (ma senza i filosofici e paradossali sbalzi spazio-temporali), guardando alla sporcizia dell’usura delle strutture spaziali di Alien e di Atmosfera Zero con reminiscenze palesi di Gravity e negli occhi le accensioni monocromatiche del Blade Runner di Villeneuve, mentre cerca la gravità di Kubrick, sebbene non abbia l’ambizione di superarlo o di imitarlo. Seppur lenti nell’andamento generale, i film di Grey non disdegnano sprazzi d’azione, di solito di grandissima fattura, come l’inseguimento lunare di Ad Astra che rimanda a quello sotto la pioggia dei Padroni della notte, che già omaggiava Friedkin e Yates e, con loro, il periodo della New Hollywood che sapeva tenere insieme spettacolarità e autorialità, cinema inteso insieme come arte e come industria.

Cugino lontano del Neil Armstrong di First man, con la medesima rassegnata risolutezza capace di qualsiasi sacrificio, il McBride di Pitt si avvicina alla laconicità di Gosling e i due film condividono una medesima visione sacrificale del viaggio spaziale e del ruolo dell’astronauta, così come un naturalismo degli effetti speciali che rendono del tutto credibili situazioni e ambientazioni, sapendo che nello spazio nessuno può sentirti piangere.

 

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