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C'era una volta a... Hollywood

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su C'era una volta a... Hollywood

di Texano98
8 stelle

Tarantino non è Tarantino. Negli anni siamo tutti caduti, chi più chi meno, nel rappresentarci il cinema tarantiniano come post moderno; citazionista, sopra le righe, autoreferenziale e reverenziale verso il cinema che fu (special modo quello additato dalla critica come di “serie b”). Forse, accecati da Pulp Fiction, lo abbiamo sovrapposto a Le iene, rimuovendo quell’esordio che in 100 minuti creava un mondo, personaggi, rileggeva e ricondensava il crimine – partendo dalla classica rapina – trovando nuovi punti di vista senza appoggiarsi al passato. Non smetterò mai di ripetere come quel film fosse un capolavoro, forse proprio perché stretto dentro un piccolo budget: essenziale, diretto, arte del farsi arte. Fin dal suo esordio Tarantino era molto più delle sue sceneggiature fluviali e dei suoi occhiolini ai B-movie. “Gimme a Leone,” la sua frase divenuta culto per indicare i Primissimi piani sugli attori.


Da Le iene sorvoliamo sopra un mondo durato ventisette anni, composto da altri sette film, e giungiamo a questo C’era una volta a Hollywood, quando l’assassino/Tarantino torna sulla scena del crimine. All’apparenza, del micro-cosmo de Le iene non c’è più nulla: C’era una volta… dura quasi tre ore, è costato 90 milioni di dollari, i protagonisti sono la crème della Hollywood contemporanea, eppure, percorrendo strade diverse il regista statunitense torna a riaffermare la sua identità, demolisce la maschera di autore scanzonato e sanguinolento che gli era stata appiccicata, declassandolo per anni. La storia di Rick Dalton (un grande DiCaprio) e del suo amico-galoppino Cliff Booth (un Pitt al suo apice) è essenzialmente un dramma: il racconto di una profonda amicizia, dove i due boccheggiano fra successo e fallimento, come sosia, quasi scambiandosi l’un l’altro; poi è la rappresentazione di una tragedia ancor più personale, quella di un attore che non riesce a vendere la propria immagine e che, colmo di amarezza, si confida ad una bambina sul set di un western, improvvisando una seduta psicanalitica sotto mentite spoglie. Il fantomatico “genere,” la Serie B arma degli anti-tarantiniani di ferro, in C’era una volta… striscia dietro le quinte: la lotta fra Booth e Jackie Chan, i gustosissimi estratti dai film di Rick, le scene dove si aggira per il set nascosto da due grossi baffi, questi momenti non intaccano il dramma, anzi, tutt’altro che semplici gag ci consegnano l’aria di quella Hollywood che non c’è più – e che un po’ non è mai esistita. La scena nel saloon dove Dalton continua a dimenticarsi le battute, rovinando un ciak dietro l’altro, andrebbe studiata sia per la scrittura sia sotto l’aspetto registico: questa cinepresa che fluttua per il set è quella del western o è quella del film di Tarantino? Il metacinema si fa sottile. Il corpo centrale del film, poi, è un unico grande blocco al cardiopalma, concitato ma lento: Sharon Tate che va al cinema da sola mentre Polanski è in Europa, il ranch “affittato” da Manson e i suoi hippies, la consapevolezza di quale sarà il naturale sbocco di tutto questo, un’inevitabile conclusione che poi, con sottigliezza, Tarantino inizia a sabotare, trasmettendo ancor più tensione allo spettatore. I dialoghi seguono di pari passo lo sviluppo dell’intreccio, il virtuosismo è confinato a pochi istanti. E il sangue, la violenza, le stragi a la Kill Bill? Lo scoppio c’è ma dopo minuti di quiete, come in un grande thriller, e più che un semplice spettacolo sembra piuttosto l’esplosione di una rabbia artistica, il grido di un Tarantino intento ad esorcizzare e sovvertire la gigante macchia di sangue che sporcò un’epoca, segnandone la fine.


Nonostante abbia sempre adorato il cinema di Tarantino, apprezzando ogni suo film, anche il più imperfetto, persino in un’opera grande e meditabonda come The Hateful Eight l’intreccio rincorreva lo spettacolo e il giallo, talvolta zoppicando (personaggi che si presentano con un monologo e, senza ulteriori approfondimenti, finiscono nell’oblio), talvolta seguendo pedissequamente i dettami del genere, tanto che la denuncia del longevo razzismo statunitense non andava oltre a un approfondimento del Django Unchained di tre anni prima. Con C’era una volta a Hollywood Tarantino torna a casa, si siede comodo davanti alla luce del proiettore e medita sul proprio mestiere, sull’arte e sul cinema che lo hanno preceduto, facendoli propri. Lo fa con minuzia, realizzando l’opera della sua maturità, prendendo la sincerità de Le iene ed eguagliandone la bellezza, scandagliando più a fondo nella propria coscienza, riportando in scena le spoglie del cinema che ha amato e di cui è figlio. Il tempo ci dirà se siamo davanti a un capolavoro ma, senz’altro, questo film è Quentin Tarantino all’apice della sua espressività. 

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