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C'era una volta a... Hollywood

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su C'era una volta a... Hollywood

di chinaski
9 stelle

In un luogo come Hollywood non dovrebbe esserci nessuna distinzione fra quanto appartiene al regno del reale e quanto appartiene a quello della finzione. Tutto può essere riscritto e rielaborato, tutto può essere trasformato in immagini. In questa magnifica perdita di ciò che è stato vero e nella sua trasformazione in una realtà puramente cinematografica risiede la grandezza delle opere di Tarantino, che costruisce continuamente dimensioni diegetiche parallele, sequenze di vita in celluloide che trascendono lo schermo per radicarsi nello sguardo dello spettatore. Sappiamo quale è il rischio, ammettere che il doppio cinematografico sia migliore delle poche verità che contiene, spostarci anche noi nel territorio della fiction significa amare l’arte nel suo potere di trasfigurare l’ordine delle cose e degli eventi. Inglorious Basterds, Django Unchained e The Hateful Eight hanno visto Quentin Tarantino impegnato a riscrivere a suo modo alcune parti della Storia americana (ed europea). In Once upon a time… in Hollywood ci spostiamo direttamente nel suo mondo, quello del cinema.

Siamo ancora nell’impero degli studios, in un periodo di cambiamento, alla fine degli anni sessanta. Los Angeles è invasa dagli hippies e dalla controcultura (anche se il centro vero e proprio fu San Francisco) e anche il cinema con le sue storie e la sua estetica si sta adeguando. Tarantino ricorre, seguendo il proprio stile narrativo, alla solita frammentazione del racconto, cosa che gli permette di utilizzare anche diversi artifici visivi per (ri)creare la percezione di un certo tipo di cinema che fu. Quindi il bianco e nero e il formato televisivo per gli episodi delle serie (Bounty Law) a cui ha partecipato Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) o il montaggio e le classiche inquadrature degli spaghetti western o dei poliziotteschi che Rick viene a girare in Italia (e in Spagna), per rimettere in sesto la sua carriera, lavorando con Corbucci e Margheriti. Il meccanismo-cinema non viene mai nascosto, ma sempre, ironicamente o spregiudicatamente, mostrato. Il filmare vero e proprio, per esempio, con tanto di errori in scena, nella sequenza del dialogo tra Caleb e Johnny Madrid. Il lavoro dello stunt-man, le pause degli attori, il dissacrante incontro tra Bruce Lee e Cliff Booth (Brad Pitt). Il lavoro dell’attore su se stesso, la spiegazione del metodo Stanislaski, nello scambio di battute tra Rick Dalton e una bambina, attore di otto anni. I costumisti, i registi, i produttori, tra cui quello interpretato da Al Pacino, che pone Rick Dalton, davanti alla sua tragica situazione artistica, continuare a fare la parte del cattivo e diventare un loser o reinventarsi in Italia.

Tutti fumano sigarette, tutti bevono cocktail. La scena di Hollywood è un costante ronzio di possibilità, una vibrazione di imprevisti. Così l’incontro tra Cliff Boot e la giovane Pussy, dagli indimenticabili piedi schiacciati contro il parabrezza della macchina, che lo porterà nello Spahn Ranch, in cui la comunità di Charles Manson si era insediata. E dove un rincoglionitissimo Bruce Dern, nella parte del proprietario George Spahn, si fa accudire dalla spregiudicata Squeaky (Dakota Fanning). E da Manson scatta il collegamento con Roman Polanski e Sharon Tate, che da poco sono diventati i nuovi vicini di Rick Dalton. Sharon, prima di rimanere incinta, se ne andrà a vedere la proiezione di The Wrecking Crew, in cui recita una parte. Nella sala si toglierà gli stivali bianchi e anche di Margot Robbie potremmo ammirare le estremità, sporche ed invitanti. Detto così sembrerebbe un film per feticisti del piede e in parte lo è ma Once Upon a time… in Hollywood è soprattuto la ricostruzione per immagini di un altro tempo ormai scomparso e svanito, da riscoprire attraverso la formidabile regia e meticolosa scrittura di Tarantino. E al di là di ogni splendida malinconia, un solo pensiero. Bisognava esserci.

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