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La paranza dei bambini

Regia di Claudio Giovannesi vedi scheda film

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La recensione su La paranza dei bambini

di Peppe Comune
8 stelle

Nicola (Francesco Di Napoli), Tyson (ArTem), Lollipop (Ciro Pellecchia), Biscottino (Alfredo Turitto), Briatò (Mattia Piano Del Balzo, O’Russ (Ciro Vecchione) sono dei ragazzi che vivono nel quartiere Sanità di Napoli. Cresciuti a stretto contatto con il crimine organizzato, maturano presto l’ambizione di scalare posizioni nelle gerarchie del malaffare. Come moltissimi loro coetanei, desidererebbero esaudire ogni pulsione consumistica. Ma a differenza di altri, hanno la possibilità a più portata di mano di trasformarsi in artefici del proprio destino. Incuranti che questo potrebbe condurli lungo una strada senza via d’uscita. Nicola è quello che si dimostra il più sveglio di tutti nel capire cosa bisogna fare e come. Chiede aiuto ad un boss che si trova in carcere domiciliare (Renato Carpentieri) per prendersi il quartiere. È innamorato di Letizia (Viviana Aprea) e insieme sognano una vita da passare insieme. Ma entrambi sanno che il loro amore non potrà mai prescindere dal rispetto del codice della strada.  

 

Francesco Di Napoli, Ar Tem

La paranza dei bambini (2019): Francesco Di Napoli, Ar Tem

 

La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi trae origine dal libro omonimo di Roberto Saviano, ma si discosta dai fatti narrati per accentuare maggiormente lo sguardo sulla condizione emotiva dei protagonisti e sul milieu urbano di appartenenza che ne può determinare gli sviluppi. Non è facile mostrare come dei ragazzi intraprendono le vie del crimine senza correre il rischio di fornirgli degli alibi morali, mostrare quanto possono essere fragili e desiderare le stesse cose di qualsiasi loro coetaneo senza risultare inutilmente ricattatori. Claudio Giovannesi ci riesce adottando una regia che cinge d’assedio le vite di questi ragazzi di strada, facendocene cogliere l’animo, le crudeli contraddizioni e le (in)consistenze caratteriali. La macchina da presa li pedina con un’insistenza quasi feroce. Soprattutto Nicola diventa il centro dell’inquadratura, è attraverso lui che Giovannesi riflette sul rapporto funzionale tra chi guarda (i boss, le scarpe della Nike, le auto di lusso, le armi, il tavolo da 500 euro del privè) e chi è guardato (perché è alla testa di una banda in ascesa, perché vuole cambiare le leggi “ingiuste” del quartiere), tra chi desidera e chi riesce ad ottenere. L’occhio meccanico si limita a registrare come questo ribaltamento di ruoli e di posizioni è avvenuto in maniera del tutto semplice e naturale, come un fatto iscritto nel senso stesso delle cose che popolano gli occhi di questi ragazzi della paranza. Questo aspetto è rafforzato anche dal mostrare insistentemente come Nicola vive con estrema “normalità” il fatto di assumere comportamenti tra loro contraddittori : il tenero amore per una ragazza e il desiderio di morte per il nemico designato, il divertimento fanciullesco per i giochi “spara tutto” e il godimento morboso per l’utilizzo delle armi vere, l’amicizia fedele e la fede per il codice camorrista, la venerazione per i boss che si vorrebbero scalzare dal comando e il piacere domestico di fare colazione con una crostatina. In quest’ottica, centrale è il rapporto simbiotico che Nicola e i suoi amici hanno con il quartiere, fonte principale della loro educazione esistenziale, un luogo chiuso e autosufficiente che li protegge, che li fa sentire adulti prima del tempo. Il quartiere è esso stesso un personaggio del film, forse il più importante, con la sua capacità di farsi specchio di qualsiasi impurità sociale, di ogni virus criminale. Di far convivere in uno stesso universo spazio temporale tutto e il contrario di tutto, senza soluzione di continuità.

Il film non si lascia dunque imprigionare nell’estetica criminale da dover esibire ad ogni costo, equilibrando bene i momenti dell’iniziazione camorrista dei ragazzi con la perdita della loro giovane innocenza. Giovannesi gioca su un doppio binario narrativo, impedendo sempre che uno prevalga nettamente sull’altro. Da un lato, c’è il sistema di cose che può indurre dei ragazzi a scegliere la strada più a portata di mano per fare soldi. Dall’altro lato, ci sono dei ragazzi colti nelle loro quotidiana vulnerabilità emotive, quando si scontrano con l’impossibilità di ottenere ciò che vogliono. È in questa relazione necessaria per questi ragazzi di strada che la loro innocenza si corrompe in maniera irreversibile, che quei “vorrei ma non posso” comuni a tanti loro coetanei si trasformano in concreta manifestazione della violenza, che il desiderio di corrispondere alla pomposa ostentazione del lusso prende la strada più semplice e naturale per poterlo esaudire. Non è solo la prossimità continuata con le metodiche criminali ad agire prepotentemente sulla loro educazione criminale. È soprattutto l’idea (molto più generale e totalmente svincolata da qualsiasi vincolo spazio temporale) che senza soldi non si è nessuno e che solo con i soldi è possibile esercitare autorità sugli altri e acquisire un rispetto illimitato. La figura del boss incarna un modello da imitare proprio perché è riuscito a fare tanti soldi, a mettersi nella condizione di non dover desiderare più niente e di potersi circondare di una miriade di cose superflue. Perché è anche in questo modo così pomposo che si manifesta l’autorità dei boss della camorra, venerati come dei personaggi importanti perché come loro riescono ad incutere soggezione per il solo fatto di rappresentare una forma di potere che si esercita senza condizionamenti di sorta.

C’è una sequenza particolare che sembra stare lì per caso, quasi decontestualizzata rispetto a tutto il resto del film. Ed è quella che ritrae Nicola e Letizia mentre assistono ad uno spettacolo dal palchetto d’onore del teatro San Carlo di Napoli. Non è un caso che subito dopo ci viene fatto vedere Nicola mentre entra nella cosa del boss del quartiere, tutta “pavesata” con stucchi, suppellettili e mobili “baroccheggianti”. Claudio Giovannesi ha evidentemente voluto creare un’assonanza di fatto tra un luogo simbolo della sovranità dei Borbone e l’abitazione lussuosa di un boss della camorra, tra le vestige armoniose di una vecchia capitale e i simulacri posticci dei nuovi padroni. La costruzione di edifici sempre più grandi, le architetture magniloquenti, l’ostentazione calcolata dei simboli del potere, sono cose che nella storia hanno sempre rappresentato il modo con cui i Sovrani hanno inteso magnificare la grandezza del loro potere verso l'esterno, sia rispetto ai “colleghi” stranieri” che ai sudditi fedeli. Allo stesso modo, i boss di quartiere fanno sentire la loro presenza minacciosa e rassicurante insieme facendo mostra degli oggetti simbolo della società dei consumi. È un modo più diretto e visibile per esercitare il loro potere affabulatorio, che agisce soprattutto sulla psicologia dei ragazzi, i quali, affascinati dal "dio denaro" e da ciò che con esso si può comprare, iniziano a pensare solo a come farne il più possibile nei modi e nei tempi che hanno più a portata di mano.

Un legame filologico assai simbolico con il posto d’onore del teatro San Carlo, è quello che Giovannesi crea con il palchetto privato del locale alla moda, lo stesso dove qualche giorno prima i ragazzi della paranza non erano stati ammessi perché non avevano i soldi. Un palco certamente meno regale, ma comunque indice di una raggiunta posizione di dominio, frutto di un’autorità che comincia ad essere riconosciuta. Cosa che li porta ad etichettare come dei “morti di fame” tutti quelli che non possono permettersi di alloggiare nel posto più esclusivo del locale, che come loro non possono spendere e offendere con prepotente volgarità. Più degli oggetti costosissimi che adesso si possono permettere, e quel trovarsi in alto rispetto a chi sta in basso a donargli la più chiara sensazione di avercela fatta. E quel poter deridere impunemente la massa di giovani assiepata al piano inferiore del locale ad inebriarli di un piacere sadico ed esclusivo. Inconsapevoli totalmente di aver accelerato irreversibilmente l’ingresso nel mondo pericoloso dei grandi. Il finale (fintamente aperto) ci porta all’unica soluzione possibile in ragione della strada che hanno voluto intraprendere.

In conclusione, Claudio Giovannesi è stato bravo ad articolare la narrazione evitando di caricare di un giudizio morale il determinismo che indirizza in maniera decisa il destino di questi “bambini” della paranza. Si limita solo a fare una fotografia attendibile del reale, a certificare il legame funzionale tra i valori “machisti” della criminalità e quelli prodotti in serie dalla società dei consumi, tra la vita che conducono nel quartiere e il mondo di fuori filtrato attraverso gli oggetti che vogliono possedere.

Aiutato dall’ottima penna di Maurizio Braucci, bravo come pochi a descrivere il milieu urbano partenopeo senza perdersi in derive inutilmente spettacolari.           

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