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The Nightingale

Regia di Jennifer Kent vedi scheda film

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La recensione su The Nightingale

di Spaggy
9 stelle

Alla sua opera seconda dopo il successo dell’horror Babadook, l’australiana Jennifer Kent cambia registro e propone con The Nightingale un dramma (con qualche accenno splatter) ambientato nella selvaggia Tasmania dell’Ottocento. Siamo nel 1825 nella Terra di Van Diemen, colonia britannica usata per ospitare deportati e militari. I deportati, provenienti dal Regno Unito, sono per la maggior parte maschi e i registri dell’epoca evidenziano come la proporzione tra maschi e donne detenute sia di otto a uno. Le prigioniere arrivavano oltre oceano con l’intento di farle sposare con i detenuti maschi e, scontata la pena, le autorità locali offrivano loro una spinta per un nuovo inizio insieme. La ventunenne Clare è arrivata dall’Irlanda, ha sposato il detenuto Aidan (che ha ricominciato a lavorare come fabbro o maniscalco, non è chiaro) e insieme hanno avuto una bambina. L’armonia è però devastata dalla presenza del giovane e ambizioso tenente Hawkins che, contribuendo alla nascita della famigliola, ha preso il sopravvento su Clare, esercitando su di lei violenze di ogni tipo, psicologiche e fisiche. Clare è di sua proprietà e il tentativo di Aidan di difendere l’amata termina in tragedia alla vigilia di un’importante promozione (a rischio) del tenente.

Mentre Hawkins è costretto a farsi accompagnare dai fedeli sottoposti Ruse e Jago (con lui complici del massacro in casa di Clare), da due vecchi ubriaconi, da un bambino detenuto e da una guida aborigena verso la città di Launcheston per prendere posizione in un nuovo avamposto, Clare si risveglia dalla terribile notte subita, affida la sepoltura dei suoi cari a un’amica e parte per portare a termine il suo proposito di vendetta. A farle da guida in mezzo alla natura ostile della Tasmania è Billy, un servo aborigeno che in cambio di denaro accetta di portarla a destinazione. Clare mente sulla natura del suo viaggio ma lungo il percorso emergono inevitabilmente le sue ragioni. Scopre anche cosa è capace di fare l’uomo bianco nei confronti di chi quelle terre le ha sempre abitate, di quegli aborigeni neri a cui ha dichiarato una silenziosa ma sanguinosa guerra condivisa dalle autorità e dal mondo civilizzato. Tra incubi, apparizioni e spargimenti di sangue anche truculenti, Clare capirà cosa sia veramente la vendetta e ritroverà quella speranza che aveva creduto oramai perduta per sempre.

Aisling Franciosi

The Nightingale (2018): Aisling Franciosi

 

Jennifer Kent gioca con gli stilemi e i cliché del revenge movie. La protagonista desidera vendicarsi di chi l’ha ripetutamente stuprata, umiliata, derisa, offesa e calpestata nell’animo. La sua forza nasce dal desiderio di porre fine con un gesto netto al suo passato e ricominciare a vivere legata all’unico ricordo del suo passato, una cavalla appartenuta al marito. Clare è pronta a tutto: a guadare un fiume in piena, a superare impassibile i cadaveri degli aborigeni che penzolano sugli alberi, a sparare, a rubare e a non fermarsi di fronte al sangue che le lava via le lacrime. Forza e determinazione vanno però scemando man mano che si avvicina al suo obiettivo per lasciare posto a una nuova concezione della vendetta, forse meno truce ma più consapevole. Nel ponderare la crudeltà degli inglesi (da cui si dissocia sottolineando di essere irlandese), Clare ha bisogno di essere diversa da loro e di ritrovare prima di tutto se stessa, lavando via l’inferno di cui è stata testimone. La voce flebile dell’attrice Aisling Franciosa si trasforma pian piano in potente e stordente e prepara alla resa dei conti. Il please, please, please che Hawkins tanto odia lascia il posto alla fermezza di chi, ribaltando a suo favore la situazione, non ha più nulla da perdere o temere. Femminista ante litteram, Clare diviene un simbolo per tutte le donne di oggi che, fin troppo spesso in condizioni subalterne rispetto agli uomini, devono imparare a urlare e non a tacere le violenze subite: la vergogna non è di chi ha patito ma di chi ha inflitto il peggio di cui è capace l’uomo, portatore sano di supremazia.

Non passa di certo in secondo piano la questione aborigena o la cosiddetta Guerra Nera. Conquistadores fuori tempo massimo, in Oceani i militari inglesi hanno sterminato quasi tutti i popoli aborigeni. In nome di Sua Maestà e di un Dio cieco (ammesso che esista), non hanno esitato a mettere in atto un genocidio vero e proprio per far valere la loro presenza, per conquistare territori non loro ed estirpare popoli di cacciatori e agricoltori trasformati da loro in guerrieri. Non si sono fatti mancare nulla: la crudeltà è stato il loro segno distintivo, rivalendosi sulla gente comune della frustrazione che la loro professione regalava. Tale importante genocidio storico, dimenticato dai libri di storia dell’Occidente, ha ripercussioni ancora oggi con movimenti nati per rivendicare un’indipendenza mai riconosciuta. L’aborigeno nero per Jennifer Kent diventa servo dell’uomo bianco, che lo vuole complice quando ne ha bisogno e capro espiatorio quando non sa con chi prendersela. Senza addentrarsi troppo nella dietrologia di chi quegli eventi li ha veramente vissuti, la regista ci propone – come racconto popolare vuole – personaggi che rimangono immutabili nel corso della vicenda: i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi. Ne fa, per ragioni di simbolismo, una questione di colore di pelle ma non dimentica di mostrare le eccezioni (l’anziano che prima dell’epilogo aiuta Clare e Billy) tra le diverse fila di oppositori. La figura del capitano Hawkins è tratteggiata in maniera netta: cattivo, crudele, dispotico, prepotente e ambizioso. Con il volto di Sam Claflin, è il simbolo di ciò che le leggende e i racconti della tradizione orale tramandano: è il demonio in persona. Dall’altro lato, Billy, colui che fa da guida a Clare, è il salvatore, colui che fluttuando tra gli alberi plana per mostrare alla sua “datrice di lavoro” quale altra strada perseguire nella vita. Ogni destinazione può essere raggiunta in due modi differenti: o seguendo la strada già mille volta percorsa dagli altri o tentare un cammino nuovo. La strada e il percorso diventano allegoria per la fine. C’è chi arriva in un punto limite oltre il quale non può più andare e c’è chi sceglie di fare il percorso inverso e risalire il fiume fino all’origine, per vedere un mondo nuovo (per un’alba che ricorda molto quella di Sweet Country).

Potremmo definire The Nightingale un film mitico, nel vero senso della parola: non presenta una realtà che non esiste o immaginaria, tratta semmai di temi universali e comuni a qualsiasi latitudine. Come si affronta la repressione? Come si risponde alla violenza gratuita? Dove trovare la forza per sopravvivere alla perdita di ogni appiglio? Cosa deve fare una donna in un contesto di totale depravazione? Dove ci si sente veramente a casa? Si può ritornare umani dopo essere stati deumanizzati dalla vita?

Le risposte arrivano con la scelta della regista di ricorrere alla cosiddetta Academy ratio (1.375:1), usata soprattutto tra gli anni Trenta e i Cinquanta. Ciò le permette di avere, anche nella vastità della natura, il volto degli attori al centro dell’inquadratura e di coglierne ogni reazione.

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