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Creed II

Regia di Steven Caple Jr. vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Creed II

di alan smithee
3 stelle

...Adonis, figlio di Apollo, ci fece una palla.... ecc. ecc.

Già chiamare un proprio figlio (non riconosciuto dal padre e anzi destinato all'orfaotrofio) "Adone", significa o avere una grande considerazione di sé  o al contrario essere dei genitori irresponsabili ed incuranti dei complessi che un nome così impegnativo può comportare al figlio. Ma sorvoliamo, tanto gli americani se ne fregano di questi dettagli insignificanti. 

Se il primo Creed si è rivelato, nel 2015, un dignitoso reboot della gloriosa (ma pur essa qualitativamente assai altalenante) saga del pugile Rocky, questo Creed 2, sacrificato alla sceneggiatura scriteriata e fuori tempo massimo a cui ha voluto a tutti i costi metter mano il buon prolisso e sentimentalmente svenevole Sly, si è dimostrato, al contrario, un vero e proprio flop: qualitativamente parlando, si intende, perché il film mi pare stia richiamando, anche a casa nostra, folle entusiaste di pubblico giovane a riempirne le sale. Pubblico che grazie al primo capitolo di questa nuova saga, ha probabilmente riscoperto i capisaldi della serie precedente dedicata allo "stallone italiano" dei pesi massimi Rocky Balboa.

Di fatto il film è in realtà più un sequel di quel famigerato Rocky IV del 1985 che, pur essendo uno degli episodi a memoria d'uomo più famosi (grazie anche alla epocale frase bovara "Io ti spiezzo in due" pronunciata da Ivan Drago ad un imbarazzato e fisicamente molto più esile Rocky), in realtà fu anche uno dei più brutti e pedestri film della gloriosa serie campione di incassi.

Un film monocorde tutto sentimentalismo svenevole e infarcito di figure di buoni e cattivi senza sfumatura alcuna, quello di metà anni '80.

Medesima, o non molto dissimile, la sintomatologia presente in questo pretenzioso sequel di Creed, che già poco dopo l'avvio si rivela senza rimedio alcuno, un film dalla narrazione prolissa e melensa, stucchevole e irritante, se si pensa che già nel 1985 certe figure masochistiche e molto sopra le righe, se non superficiali e macchiettistiche di cattivi atleti russi formati per combattere più una guerra patriottica, che una sana competizione agonistica, apparivano davvero una bufala degna di un B movie greve e superficiale per palati facili e folle dalla facile capacità persuasiva.

Rivedere Ivan Drago (il buon Dolph Lundgren, attivo oggi più che mai anche in produzioni di serie A, dopo una lunghissima gavetta nell'action B-movie di facile esportazione) invecchiato e solitario, vissuto come un profugo a seguito della sua sonora sconfitta sull'avversario americano (Rocky), dopo averne non solo battuto, ma anche eliminato uno ancor più eccellente (per stessa ammissione del Balboa), riesce per un attimo a suscitare una certa tenerezza, che si trasforma in stupore quando riconosciamo, dietro le quinte, il fisico ancora smagliante della ex moglie (una rediviva e sempre più "crudelia demon" Brigitte Nielsen.... ma forse era una sorpresa e non dovevo scriverlo...). Questo da un lato ci fa pensare (..tanto il film scorre monocorde e prevedibile lungo tutta la sua svenevole storia intima alternata ad allenamenti testosteronici nel mezzo di un accogliente e tiepido deserto del Nevada) a quanto potente sia il richiamo del business, anche quando di mezzo ci sono (state) questioni personali ed economiche davvero accese.

Ricordo ancora, e forse capiterà a qualche altro cinquantenne come me, gli echi mediatici incalzanti del divorzio miliardario di Sly con la Nielsen, divenuti da coppia di fuoco (di paglia) di un matrimonio lampo (tempo di far girare due film alla bionda fiammante, questo e il micidiale ma anche magnifico Cobra), a nemici giurati, e ora, dopo quasi trentacinque anni, di nuovo assieme per favorire la causa, giusto il tempo di spendere due inquadrature sulla maliarda, che divengono peraltro, probabilmente involontariamente, gli unici momenti veramente interessanti del filmaccio, almeno per noi cinquantenni memori della nostra gioventù anni '80.

Il cinema è business e basta per Sly, che lo ha capito diventando una fenice cinematografica in grado di nascere, decadere e rinascere ad ogni decade di questi ultimi quarant'anni di blockbuster a stelle e strisce.

E se il film appare desolante e insalvabile sotto ogni punto di vista, l'affetto che ancora riusciamo immancabilmente a nutrire per Sly, non riesce comunque a diminuire, come non riesce a scalfirsi l'icona rassicurante di un sogno americano che a volte esiste davvero, nella sua inconsistenza sconcertante di fondo, e che l'attore americano rappresenta ed incarna più di ogni altra star del paradiso hollywoodiano.

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