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Anche i nani hanno cominciato da piccoli

Regia di Werner Herzog vedi scheda film

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La recensione su Anche i nani hanno cominciato da piccoli

di ed wood
8 stelle

Apparentemente più vicino a Jodorowski e Bunuel (quelle galline che continuano a beccarsi!) che alle altre opere di Herzog, questo incubo iperrealista in bianco-nero (scelta anomala, per quanto necessaria, per un "poeta del pianeta Terra") in realtà dice molto del suo autore. D'altra parte, l'opera omnia del grande cineasta bavarese, per quanto dispersa fra film "a soggetto", mediometraggi, documentari, mock ("Ignoto spazio profondo"), ibridi inclassificabili ("Fata Morgana", "Apocalisse nel deserto"), assurdi non-remake e via sperimentando, possiede la coerenza interna e l'assiduità di rimandi e auto-citazioni tipica dei grandi artisti/pensatori. Il mondo di Herzog è dominato dal caos, dal disordine, dall’anarchia; il Male è ovunque: persone, animali, vegetali, minerali, oggetti, edifici, luoghi ne sono pervasi e non c’è nulla che li redima. I nani malefici, capaci delle più infami e perverse crudeltà, “vivono” solo per compiere il male, per sopraffare il più debole, per infliggere dolore gratuito: la loro ambizione si risolve in una cieca violenza e non ha nulla dello spirito vendicativo, ma sacrosanto, che animava i loro cine-predecessori più illustri, i Freaks di Todd Browning. Prima di dare alla luce i suoi capolavori, Herzog, già con le idee chiare, propone una versione distorta, tanto reale quanto allucinata (altro tema herzog-iano), dei suoi futuri anti-eroi, ambiziosi anarcoidi assetati di esperienze, ma al contempo corrotti da una follia senza compromessi che li conduce a tirannia ed isolamento (da Aguirre a Bokassa, personaggi reali o semi-inventati, “bigger-than-life”, sede di tutte le ambiguità di cui il genere umano è atavico portatore). Se in tutte le altre opere della galassia herzog-iana c’è spazio per la metafisica, il misticismo, lo spiritualismo, per quanto funestati dalla Morte, in “Anche i nani” c’è spazio solo per una apocalisse atea, senza redenzione e senza vie di fuga. Non c’è trama, non c’è drammaturgia: la vicenda si dipana in un movimento circolare, un eterno ritorno, di cui l’estenuante sequenza della camionetta che gira in tondo in eterno senza pilota, come un pianeta senza Dio e senza senso, è impagabile metafora. Così come il “silenzio” del ceppo d’albero, inerte agli ordini dell’unico nano che ancora crede all’Istituzione. Due immagini potenti, che riscattano il film da alcuni momenti scontati, retorici o fiacchi. Herzog avrebbe dato il meglio di sé altrove, filmando i luoghi più remoti del pianeta (un titolo fra i meno battuti: “La Soufriere”, incredibile documentario su una città deserta a causa di un’eruzione vulcanica imminente) o riflettendo su logica, linguaggio, percezione da parte dei “diversi” (“L’enigma di Kaspar Hauser”, “Il paese del silenzio e dell’oscurità”), ma questo suo giovanile, acre, testardo saggio sulla cattiveria umana resta un tassello imprescindibile della sua poetica.

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