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Un affare di famiglia

Regia di Hirokazu Koreeda vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un affare di famiglia

di yume
9 stelle

Palma d’Oro al 71esimo Festival di Cannes Un affare di famiglia dà un altro tocco all’affresco che ha cominciato a dipingere nel ’95, con Maborosi, proseguendo con una filmografia che ogni volta ha tracciato nuove traiettorie esistenziali, ora individuali, ora sociali, ora di coppia.

locandina

Un affare di famiglia (2018): locandina

Può una famiglia definirsi tale anche in assenza di legami di sangue fra i suoi membri?

Può, e ce lo dimostra Kore - eda Hirokazu che della famiglia declinata in tutti i modi possibili ha fatto il perno di questo suo cinema intimista eppure dichiaratamente aperto al sociale, anti-psicologico eppure capace di immersioni vertiginose nei suoi personaggi, minimalista oltre ogni ragionevole conciliazione con le ragioni della narrazione eppure dotato della sublime completezza di un classico.

Bastano due parole per raccontare la storia di un uomo e del mondo intorno a lui, “casta inceste”, impuramente pura, non racconta forse tutto della povera Ifigenia, del tracotante Agamennone, dell’astuto Odisseo e di una ragion di Stato che sempre la vince su tutto?

Ebbene, a Kore – eda Hirokazu basta far dire “ papà” al ragazzino portato via dal tram, e non glielo fa dire urlando fra le lacrime, affacciato al finestrino e sbattuto dal vento della corsa. No, lo dice piano, a sè stesso, mentre l’uomo che risulta essere padre di nessuno, corre sgangherato sul marciapiede sparendo pian piano dall’orizzonte.

 

Quella parola certifica l’esistenza di una famiglia oltre ogni ragionevole dubbio, quella che noi pensavamo che fosse, e poi scopriamo che non era, anzi è una strana raccolta di casi clinici e giudiziari da farci una serie televisiva.

 

Lily Franky, Ando Sakura, Matsuoka Mayu, Kiki Kilin, Jyo Kairi, Sasaki Miyu

Un affare di famiglia (2018): Lily Franky, Ando Sakura, Matsuoka Mayu, Kiki Kilin, Jyo Kairi, Sasaki Miyu

Ma andiamo con ordine, e aggiungiamo subito che alle spalle di Kore – eda continua ad esserci Ozu, e come in tutti i film di Ozu, anche qui “…l’intero mondo è compreso in un’unica famiglia. I confini della Terra non si trovano molto più in là delle pareti domestiche”. (J.L.Anderson- D.Richie, Ilcinema giapponese, Feltrinelli, 1961, p. 51).

E come nel cinema di Ozu, ma con il disvalore aggiunto del degrado ambientale tipico di una moderna metropoli, il mondo è “ ad altezza di tatami” e i bambini ne misurano le dimensioni.

L’hanno definita “famiglia disfunzionale”. Nulla di più inesatto.

Quelle sei persone si amano davvero, ed è solo un caso, o il Caos che spariglia sempre le carte, se sono nati da uteri peregrini.

Vivono insieme in una catapecchia immersa fra i grattacieli, mangiano e dormono stretti stretti, mai nessuno che alzi la voce, e se la piccola Yuri è chiusa al freddo sul balcone di casa da genitori che litigano dentro e ha le braccine piene di tagli e bruciature, allora prendiamo anche lei con noi, dice Osamu, non è mica un rapimento!

Poi la legge dirà che lo è e i giornalisti non aspettavano altro che collaborare col Chi l’ha visto giapponese, insomma sono guai e non si può più essere la dolce famiglia che si era prima.

A quel punto vengono a galla cose che i servizi sociali non apprezzano sui processi formativi dell’infanzia, un ex marito picchiatore che si è dovuto uccidere per forza altrimenti uccideva loro, una vecchia nonnina sepolta in casa perché non ci sono soldi per il funerale, insomma di tutto un po’, e ci si ritrova soli, in cella, su un tram, o sul balcone di casa, al freddo.

 

Ma la legge degli uomini è stata rispettata.

 

Kore – eda ha sempre il potere di chiuderci in un bozzolo di serenità e amarezza, dolore e sollievo, lascia che il mondo scorra sullo sfondo con tutte le sue brutture ma i suoi piccoli eroi ne escono incontaminati.

 

L’uomo è Osamu Shibata (Lily Franky suo attore feticcio) un pazzerellone generoso e strampalato che fa il carpentiere e odia il suo lavoro, preferisce rubacchiare in giro insegnando il mestiere a Kosha, un adolescente taciturno, il “figlio”, trovato un giorno in una macchina dove viveva da homeless; la compagna  è Noboyu (Sakura Ando), donna sorridente e pragmatica, sessualmente ben assortita con Osamu, mai penseremmo a lei come ad un’assassina, così profondamente materna e generosa com’è; la bimbetta, Juri (Miyu Sasaki) è una bambolina meravigliosa che non conosce smancerie e carezze, risponde compunta alle domande, tace su cose che non vuol dire perché troppo brutte, e impara presto come rubacchiare per farsi voler bene da Kosha.

La sorella di Noboyu è una giapponesina moderna e aggraziata, lavora in un locale dove gli uomini vanno a vedere nascosti dentro le cabine, e tesse un’ amicizia affettuosa con il cliente n.4, altro déraciné da manuale di psicopatologia della vita quotidiana.

Infine c’è la nonna, centro della casa, che non è nonna di nessuno ma è come se lo fosse e fa tutto quello che le nonne fanno, compreso morire all’improvviso senza dar fastidio.

Cosa ha riunito queste sei goccioline rotolanti sul pendìo della vita non è dato sapere, Kore – eda le mette in scena con discrezione, non crea interrogativi, la sua è la traduzione cinematografica dell’alfabeto artistico Zen che in ogni pellicola si riproduce con straordinaria fertilità inventiva.

 

Palma d’Oro al 71esimo Festival di Cannes Un affare di famiglia dà un altro tocco all’affresco che ha cominciato a dipingere nel ’95, con Maborosi, proseguendo con una filmografia che ogni volta ha tracciato nuove traiettorie esistenziali, ora individuali, ora sociali, ora di coppia.

La casa è sempre stata al centro, spazio centripeto dove non entra il freddo che c’è fuori, ma anche guscio fragile sepolto com’è nel cemento.

Kore – eda allarga spesso il campo, verso l’alto e in orizzontale e la metropoli tentacolare entra tutta nel campo visivo.

Poi si sofferma su particolari minimi, un insetto che sale lungo la corteccia di un albero, due piccole mani che tracciano segni nell’aria, un dentino che cade e lascia una finestrella in bocca, le arance rosse che rotolano giù dal cavalcavia.

 

Dramma e commedia convivono in buona alleanza, la sequenza balneare dà la cifra di quello che è vivere per questa “famiglia”, la neve dell’inverno porta il freddo da brividi ma è anche occasione per fare un bel pupazzo.

 

E’ quello che Paul Schrader chiama “stile trascendentale” (Il trascendente nel cinema, ed. Donzelli 2010)

 

“... il desiderio di rappresentare l’aware, il mondo ideale o l’estasi, viene formalizzato nella triade dello stile trascendentale...

1) la quotidianità: una meticolosa rappresentazione dei banali, insulsi luoghi comuni della vita di tutti i giorni...

2) la scissione: una reale o potenziale separazione tra l’uomo e il suo ambiente che culmina in un evento decisivo...

3) una visione cristallizzata della vita che non risolve la scissione ma la trascende...

 

La stasi è il risultato finale dello stile trascendentale, una visione pacificata della vita. L’evento decisivo non scioglie la scissione ma la cristallizza nella stasi.”

 

 

www.paoladigiuseppe.it

 

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