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La montagna del dio cannibale

Regia di Sergio Martino vedi scheda film

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FABIO1971

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La recensione su La montagna del dio cannibale

di FABIO1971
6 stelle

"Gli animali non fanno altro che seguire il loro istinto, uccidono per sopravvivere. Anche l'uomo ha lo stesso istinto, ma per soddisfarlo ricorre a mezzi più sottili: la menzogna e l'inganno".

[Claudio Cassinelli]

"La Nuova Guinea è forse l'ultima regione sulla Terra che ancora comprende immense aree inesplorate, avvolte nel mistero, dove la vita è rimasta a livelli primordiali. Oggi, all'alba dell'era dello spazio, sembra inimmaginabile che a sole venti ore di volo da Londra ancora esista un mondo così selvaggio e incontaminato. Questa storia ne è la testimonianza": è la frase che introduce, dopo i suggestivi titoli di testa, la cornice ambientale della vicenda alla base di La montagna del dio cannibale, ventesima regia di Sergio Martino, realizzata in Sri Lanka e Malaysia, e sua prima incursione, seppur filtrata attraverso l'incedere appassionante del genere avventuroso, nell'horror. Susan Stevenson (Ursula Andress), insieme al fratello Arthur (Antonio Marsina), si rivolge al professor Foster (Stacy Keach) per ritrovare suo marito Henry, etnologo di fama internazionale scomparso in Nuova Guinea durante una spedizione in una zona inesplorata. Foster, che condivide con Henry, suo amico, l'identico interesse per lo studio dei popoli primitivi del luogo ("Purtroppo è un mondo che sta scomparendo, la civiltà distruggerà tutto in poco tempo"), rivela loro la meta della spedizione ("Questa è l'immensa giungla di Marabata: è qui che si sono perse le tracce di Henry. A circa cinque miglia dalla costa c'è l'isola di Roka: quest'isola è ricoperta da una vegetazione impenetrabile, che circonda e protegge la sacra montagna di Raramì, una montagna che gli indigeni ritengono maledetta") e li avvisa immediatamente: "Le autorità ci vietano spedizioni nella giungla di Marabata per timore che da lì si raggiunga l'isola. Dicono che è una precauzione ecologica, ma la verità è che anche loro temono la maledizione. Come chiunque altro". Ma Susan è disposta a tutto pur di ritrovare il marito scomparso e coinvolge Foster in una spedizione all'insaputa delle autorità, a cui si unirà anche Manolo (Claudio Cassinelli), medico missionario incontrato nella giungla. L'avidità umana, però, si nutre di inganni e menzogne: il colpo di scena che ne smaschera la reale natura stravolgerà con un colpo di coda la nobiltà d'intenzioni dei protagonisti, trascinandoli, tra riti sanguinari e barbare perversioni, in un abisso di atrocità. Primo titolo di un trittico di horror avventurosi d'ambientazione esotica (L'isola degli uomini pesce e Il fiume del grande caimano gli altri due) che Martino realizzerà prima di dedicarsi quasi esclusivamente alla commedia(ccia), La montagna del dio cannibale è un film controverso, irrisolto, banalmente compiaciuto (senza possedere, cioè, quell'aura maledetta che ammanterà, ad esempio, Cannibal Holocaust), ispirato nella costruzione del racconto, per ammissione del suo autore, che firma anche la sceneggiatura insieme a Cesare Frugoni, a Le nevi del Kilimangiaro di Henry King e, soprattutto, a Ultimo mondo cannibale di Deodato. Tra sequenze che raggelano il sangue (la testa della scimmia intrappolata nella bocca del pitone, con i suoi disperati tentativi di divincolarsi dalla morsa dei denti, la sua lenta agonia, i moti spasmodici della coda, fino all'ultimo sussulto prima della morte: scena non prevista e girata per caso durante gli ultimi giorni di riprese, uno dei cosiddetti "fegatelli", purtroppo degenerato senza che la troupe riuscisse a prevenirlo) e citazioni neanche troppo velate (ad esempio nei virtuosismi della sequenza con la zattera in balìa delle rapide del fiume, tra l'altro di smagliante efficacia spettacolare, dove riecheggia prepotentemente il John Boorman di Un tranquillo weekend di paura), Martino muove la macchina da presa e taglia le inquadrature abbandonandosi a seducenti suggestioni visive, quasi volesse contrappuntare con l'esemplare brillantezza stilistica della "grammatica" le raccapriccianti nefandezze esibite (mutilazioni, decapitazioni, evirazioni, animali maciullati, perversioni sessuali e orge vomitevoli...). È cinema anche questo, indubbiamente discutibile ma pur sempre cinema, che in più di una sequenza riesce anche ad affrancarsi dalle morbose pulsioni della serialità in cui è inscritto, quella della moda dei cannibal movies (quindi serie B o Z a seconda dei gusti), per proporne un violentissimo compendio: l'impatto sullo spettatore è devastante, l'orrore nauseante, ma la tensione dell'avventura nell'ignoto di una natura selvaggia, nonostante le rozzezze del copione, si anima di progressioni drammaturgiche di genuina e affascinante caratura spettacolare. Naturalmente le incongruenze, le cadute di tono, la gratuità dell'estetica dell'eccesso esibita con baldanza dal film e le grossolanità fiaccano spesso la plausibilità e l'incisività della narrazione, come riconoscerà lo stesso Martino ("Il fascino del film si esprime, a mio giudizio, soprattutto nella prima parte: forse la seconda diventa un po' troppo grand guignol, perchè c'è forse abuso di quelli che erano i canoni del tempo, di dover essere a tutti i costi spietati"), che riesce comunque ad evitare di sprofondare nel ridicolo grazie anche alle squisitezze formali della messinscena, a partire dalle languide melodie della colonna sonora di Guido e Maurizio De Angelis (tra i loro risultati migliori), alla splendida fotografia di Giancarlo Ferrando e alle scenografie allestite tra mille difficoltà da Massimo Antonello Geleng, all'esordio dopo l'apprendistato come assistente di Danilo Donati per il Fellini di Amarcord e Casanova.

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