Regia di Julian Schnabel vedi scheda film
Dentro gli occhi di Van Gogh
Un pittore che descrive un pittore "dal di dentro", facendoci entrare nei suoi occhi ingombri di lacrime, o intorpiditi dall'assenzio, in soggettive in cui la metà inferiore dello schermo è sfocata, oppure facendoci correre a perdifiato, con tutti i sobbalzi della macchina a mano, senza la melassa della steadycam, per campi di girasoli che svettano morti e desolati, o affondare scarpe sfondate nel fango in passi frenetici e ossessivi o in chiese dove enormi pilastri rotondi, millenari come querce, si inoltrano nel buio delle volte, o facendoci rotolare su pietre tombali dove Van Gogh si rotola, noncurante di segnare ulteriormente la sua pelle segnata da mille rughe, o immergere in campi incolti di erba alta, a farsi abbracciare dalla terra, e riempire gli occhi di giallo di sole e blu cobalto di cielo, per placare la febbre interiore, la ricerca inesausta d'amore. Willem Dafoe è straordinario, si immerge nel ruolo della vita, poco importa se 62enne a interpretare un 37enne, Van Gogh sarà giunto cosi al termine della sua breve vita, i veri solchi della faccia di Dafoe che procedono paralleli a segmentarne il volto, coincidono con le linee vorticose del vento nei cieli stellati, nelle radici contorte a riempire le sue tele fino a cacciarne i tronchi, e il suo occhio di bambino implorante affiora a cercare il nostro, commovente. Julian Schnabel, pittore magmatico di tele enormi, bistrattate da colori e segni, dove il gesto deve essere uno ed uno solo, quello, a metà sentiero tra Jackson Pollock e Van Gogh appunto, ci fa vivere un'esperienza emotiva e tattile, come già aveva fatto con Basquiat, ma là descriveva un fratello di strada, bruciante e bruciato, qui entra letteralmente nel corpo e nella mente emaciata e delirante di Vincent, e ci fa sobbalzare e stremare e soffrire con lui, a cercare di schivare i colpi di incomprensione e di pistola dei suoi concittadini sordi, cinici e opachi. Van Gogh - Sulla Soglia dell'Eternità, è un'esperienza totalizzante, un vero trip come si diceva nei Juke Box all'idrogeno, On the road che aleggiavano intorno a Schnabel, negli anni '80. E gli scarni ma preziosi dialoghi di Jean-Claude Carrière, lo sceneggiatore dei fascini discreti, dei fantasmi di libertà, degli oscuri oggetti del desiderio buñueliani, ci guidano inesorabili ma semplici a dipanare la matassa interiore, a decrittare il fascino angosciante ma imprescindibile che esercitano ancora su di noi le tele convulse di Vincent, salvo poi placarci anche noi nel giallo che invade, dopo i titoli di coda, per due minuti lo schermo. Il film è arricchito ancor più da preziosi camei, della locandiera di Emanuelle Seigner, ignara che il libro bianco da lei regalato a Vincent era riempito da 65 disegni, scoperti solo nel 2016, del reduce da Saint Quentin impazzito e tatuato di Niels Arestrup, dal sornione dottor Gachet di Mathieu Amalric, ma soprattutto dal prete scettico e sibillino di Madds Mikkelsen, nel dialogo memorabile in cui Vincent e lui si confrontano, sull'arte, sulla fede, sull'anima, di fronte ad un piccolo quadro di uccellini in un nido, sparuti come Van Gogh ora di fronte all'autorità ecclesiastica, alla sorda diffidenza della sua epoca.
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