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Salto nel vuoto

Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Salto nel vuoto

di spopola
8 stelle

La scena costruita come un labirinto pieno di insidiosi pertugi, le luci soffocate dalle ombre fitte della fotografia, sono la base che rende evidente il significato di un conflitto che si rivelerà mortale. Le reminiscenze quasi bergmaniane di alcuni passaggi, ben sottolineano le ossessioni del regista e le trasformano in splendide immagini.

E’ un film che ho “vissuto” sul piano dell’impegno personale. Che, però, esigeva, nella composizione, una scelta rigorosa di linguaggio. E’ un film fatto di niente, senza fatti. E’ un film mormorato, detto a mezza voce. Non ha “larghi”. Procede secondo dei tempi dilatati, antispettacolari al massimo. Antitelevisivi. Fuori della convenzione di un certo modo di fare cinema. Bisogna saper decifrare i piccoli segni, i piccoli mutamenti che mi interessano, e credo di essere riuscito a farlo. (…) Il film, fin dalla fotografia, è fatto di penombra e contrasti. Dato come acquisito il fatto che il lavoro si concentra sulle minuzie, che sono poi una parte rilevante di quei piccoli mutamenti a cui accennavo sopra, mi sembrava che lo stile dovesse essere più uno stile da microscopio. Uno stile non freddo, ma “oggettivo” (…) (Marco Bellocchio su Salto nel vuoto nel volume dedicato al film nella collana  Universale Economica Feltrinelli).

 

Da quell’acuto osservatore che era, Alberto Moravia sosteneva (e aveva davvero molte ragioni per farlo), che Bellocchio, come ogni vero “autore” degno di tale nome, avvertiva l’impellente necessità di fare i conti, attraverso le sue opere cinematografiche, “con una sua storia più personale e privata che corre però parallela a quella del mondo”, e quindi strettamente correlata ai processi politico-culturali in atto legati a una realtà sociale in costante evoluzione e movimento, come se si trattasse di due rette mai divergenti né scisse fra loro, ma solo parzialmente sovrapponibili, che lo porta(va)no a sviluppare una dialettica fra le due posizioni, che (adesso si può ben dire), è stata sempre – salvo sporadici rallentamenti – quanto mai costante, uniforme e produttiva anche quando la contrapposizione era più lacerante ed evidente.

La sua poetica, è dunque formata da “un nucleo” (se così volgiamo definirlo) dolorosamente autobiografico, abitato cioè da un universo di figure e di situazioni, di esperienze traumatiche e di ossessioni, che riguarda il “privato”,  e come tale, ingloba e coagula una parte sostanziale del suo “sentire interiore”, inteso  come (ri)scoperta del proprio vissuto,  che non è però mai del tutto così personalizzato da risultare avulso dalla realtà esterna con cui si confronta, dialoga e interagisce. Ed è proprio questo rapporto sostanziale e creativo con i bisogni dell’anima tutt’altro che disancorato dal mondo che lo circonda, la peculiarità più evidente che, soprattutto nelle opere più complesse e riuscite, non ha mai fatto perdere la  forza di “denuncia” più universalizzata alle sue provocazioni anche formali. L’invidiabile aderenza tematica che gli deve essere riconosciuta, è infatti sostenuta da uno stile che si è fatto di opera in opera  più maturo e inappuntabile (è semmai il periodo “Fagioli” che mostra qualche falla sotto questo profilo), in un percorso anche con molti ostacoli e “cadute” che, come abbiamo visto, non si sono sempre rivelate positive per lui, ma che ha sempre affrontato con grinta, sofferenza e inusuale tensione morale, attraversato spesso (ma anche corroborato) da una beffarda, iconoclastica, grottesca violenza in quel felice e fruttuoso contrasto di toni che si definisce a volte nel passaggio anche repentino dal realismo a un valore di metafora più  elaborato e mediato che  sposta la percezione verso i confini tortuosi dell’inconscio, e che con quel suo riproporsi fra il grottesco e l’espressionista, fornisce, figurativamente parlando, il senso ultimo e profondo, di una spietata, “necessaria”, temeraria analisi “comportamentale” sempre “criticamente” pregnante.

 

Il dato  di riconoscibilità più appariscente ed evidente  del suo modo “di fare cinema”, è comunque sempre stato a mio avviso, il rifiuto radicale della nozione stessa di “normalità”.

Da qui, qui la presenza costante e dominate del tema della “follia”, corrente sotterranea e tumultuosa come un fiume carsico, che attraversa l’intera sua opera.

Una “follia” intesa  comunque come una presenza  inquietante, complessa, sfumata, mai univoca,  coniugabile in varie forme controverse e cangianti, ma  sempre con quel tanto di vitale e positivo anche se più rabbioso e incerto, che essa si porta dietro, che è poi l’aspetto che la nobilita – e in qualche modo la risarcisce - dalla scomoda opposizione razzista della chiusura finalizzata all’emarginazione segregazionista che in genere la connota, con tutte le negatività che ne derivano.

Una “follia” per certi versi lucida e consapevole, di caustica resistenza al sistema,  e quindi mai conformemente osservante delle usurate regole (ma anche delle pastoie ideologiche) della “demonizzazione” mitologicizzata dello “sragionare” imposte alla cosiddetta pazzia comportamentale, perché – al contrario - perfettamente calata  (ancorata) dentro i  contesti sociali che l’anno generata. Un modo di parlarne insomma, che tende a risalire  alle origini del “malessere” da cui trae la linfa che lo alimenta, per stigmatizzarne le cause e le malversazioni,  e che contribuisce a trasformarla in una forza sovvertitrice di tutto ciò che è “normalizzante”, tumultuosa e potente,  piena di imprevedibili risvolti. E’ indubbio che il tutto finisce così per acquisire la drammaticità di una denuncia, pienamente  rivelata dal contesto, che deve essere inteso proprio come la condizione ottimale, o meglio quella sociologicamente più rilevante, nella quale trova i terreni più fertili per svilupparsi, prendere forma, incarnarsi, fossilizzarsi,  pietrificarsi in quella modalità così estremizzata di astrazione mentale che è il suo limite e la sua risorsa oppositiva più evidente. Terreni di coltura che sono poi rappresentati proprio dalle situazioni chiuse, totalizzanti,  reazionariamente coercitive e senza via apparente di uscita, che si identificano spesso nei “manicomi” della nostra esistenza, espressi dalle  cupe bolge infernali repressive e castranti della famiglia, del collegio con le sue regole e le sue perversioni, della caserma con la miope gerarchia della prevaricazione  autoritaria,  della forza mediatica dell’informazione, della sopraffazione  anche ideologica, dell’opportunismo politico e della sete del potere (e così via di seguito), dentro cui i suoi film hanno magnificamente costruito, e continuano a farlo ancora oggi (Vincere ne è esempio eclatante) la ragnatela di constatazioni e di  accuse persino di carattere dottrinale, formata dalle bieche storture che arrivano a volte ad assumere  la forma distorta della “Storia”. Il suo è dunque un lavoro sistematico e costante di picconaggio tendente alla distruzione di valori e comportamenti vecchi e stantii, borghesi, deformi, portato avanti con quei  più o meno coscienti atti di negazione di “regole” imposte e non condivise (né condivisibili) che ci fanno pienamente comprendere le ragioni del dissenso.
Ecco, a mio avviso, risiede proprio in questo intreccio inestricabile e suggestivo di sensazioni urticanti,  il fascino, l’ambiguità e la forza, del cinema di Bellocchio, del quale, soprattutto se riferito al primo suo segmento di attività, questa pellicola  rappresenta uno dei traguardi più eloquenti e importanti.

Salto nel vuoto (insieme al meno significativo Vacanze in Val di Trebbia) è dunque a tutti gli effetti il titolo che chiude davvero la seconda fase del primo ciclo, ma anche quello che apre le porte (ne possiede già in pectore molti dei germi destabilizzanti) al suo travagliato periodo successivo, criptico e controverso (da  Gli occhi, la bocca a Sogni infranti – ragionamenti e deliri) che a volte mi (ci) aveva  fatto temere il peggio. Fortunatamente (per noi e per lui) però poi il risveglio  dal torpore che aveva sfocato un poco le sue capacità percettive, a un  certo punto è arrivato, facendoci così trovare di fronte alla piena e totale maturazione dell’artista.  Il titolo che ha segnato la svolta, è stato Il principe di Homburg (non a caso, credo, vista la tematica del dramma di Heinrich von Kleist che diventa poi nella sceneggiatura scritta dallo stesso regista, il luogo ideale per lo scontro fra razionalità e inconscio, dove è possibile innestare nel romanticismo del testo teatrale intriso di “sogno” e realtà, le più metafisiche e moderne intuizioni di una psicanalisi finalmente purgata  dell’influsso  quasi “plagiante”- è ovviamente un mio personale punto di vista del quale mi assumo totale responsabilità – che Massimo Fagioli ha indubbiamente avuto su di lui, che sarà stato sicuramente importante e  utile sotto il profilo della  rinascita interiore e della ricostruzione dell’ego che ha generato, ma non ugualmente e altrettanto produttivo – per me anche questo un incontrovertibile dato di fatto – sotto il profilo della produzione artistica, così complessa e discutibile, mai totalmente  risolta nella sua oscura farraginosicità , che meriterebbe una analisi molto approfondita che forse non è il caso di affrontare in questa circostanza.

E’ da quel titolo insomma che quelle due rette che avevano seriamente e pericolosamente rischiato di entrare in rotta di collisione, tornano a muoversi in “sintonia” e in parallelo, e la sua arte riprende a volare sempre più in alto,  e in crescendo, da La balia, rilettura un po’ anarcoide di Pirandello, all’exploit straordinario e sorprendete di Vincere, ingiustamente “sottostimato” da una cospicua parte di una critica più prezzolata e servile che miope che credo abbia fatto volutamente finta di non accorgersi del suo assoluto e intrinseco valore  anche semantico oltre che strutturale, che si esalta, come accade proprio per i capolavori, nella scelta della forma e nella ardita sperimentazione del linguaggio.

 

Torniamo comunque  a Salto nel vuoto, perché è proprio di questo titolo che intendo parlare in questa circostanza.

15 anni, mese più mese meno,  è il lasso di tempo che separa la follia ammaliante dei giovanili I pugni in tasca (il suo dirompente, fragoroso debutto presessantottino) da quella ancor più “sinistra” e non meno destabilizzante di quest’opera, con la quale il regista conferma la piena maturità stilistica raggiunta. E’ proprio in tale prospettiva allora, confrontandosi anche con i profondi cambiamenti della società nel frattempo intervenuti (rilevanti come quelli nella vita di Bellocchio) che deve essere misurato e valutato il senso e la coerenza di un tragitto iniziato convulsamente con un’opera distruttiva e furente come quella del suo esordio, e arrivato con un apparentemente più pacato passo meno rumoroso ma ugualmente sorprendente, a questo titolo che ne suggella in qualche modo l’approdo (anche se poi ci sarà la necessaria “appendice” de Gli occhi, la bocca) e che – nel privato - spazia dal turbolento rapporto anche sentimentale oltre che artistico con Elda Tattoli – musa inquieta e fondamentale collaboratrice creativa delle prime opere intrise dalla ferocia della contestazione assoluta -  al più “sereno” ma non del tutto interiormente risolto rapporto coniugale con Gisella Burinato con la  “rassicurante” presenza del figlio Piergiorgio (non a caso scelti per interpretare due figure secondarie ma fondamentali di Salto nel vuoto).  Una distanza che per quanto riguarda le divergenze formali dell’approccio e della realizzazione,  potrebbe sembrare persino abissale ma che non è poi nemmeno così profonda come potrebbe sembrare a prima vista e certamente e soprattutto non in perdita, visto che il film è girato forse con meno empatia, ma con analoga, straordinaria magniloquenza ispirativa: Espressione consapevole della propria e dell’altrui crisi, “Salto nel vuoto” rompe il cerchio chiuso della negatività, grazie a una ragione dialettica in cui si sovrappongono e disintegrano tre influssi, tre componenti: la tensione politica, la forma/rapporto del gesto, dell’aggressione, della deformazione grottesca, persistente come residuo, come sostrato, e la memoria autobiografica. Si parte da se stessi per capire gli altri. Le ossessioni più private, fraternità, malattia, suicidio, ecc., si dilatano fino a farsi geroglifico sociale, la propria esperienza si decanta nella volontà d’analisi, nella capacità di pensare il privato in termini politici, di spiegare attivamente la realtà perché sia possibile piegarla a nuove vie. (Alberto Barbera e Gianni Volpi, a proposito di Salto nel vuoto, ancora nel volume Feltrinelli sopra citato).

Già dunque illuminato profeta del ’68 (I pugni in tasca), Bellocchio sembra  quasi voler condensare in Salto nel vuoto (facendone così  a suo modo un’opera speculare a quella dell’esordio), i turbamenti e le carenze fortemente involutive di tutto ciò che è venuto dopo, riflettere cioè l’abisso anche generazionale che separa il 1965 dal  1980: la morte della famiglia, l’insofferenza crescente del disagio esistenziale, la  progressiva totale sfiducia nel “valore” protettivo delle istituzioni e la condanna che ne deriva, l’antipsichiatria, la rivalutazione dell’emarginato, il primato della donna - o meglio la maggiore positività del sentire al femminile - e perfino, in un finale che vede Marta  stringersi nel letto al  figlio della domestica Emilia, l’approdo della contestazione all’ultima spiaggia, cioè alla demistificazione del mito consolatorio e criptocattolico del Bambino come figura salvifica  (Tullio Kezich – La Repubblica – 15 febbraio 1980).

E allora, se davvero i racconti si scrivono per dimenticare piuttosto che per ricordare, come asseriva Thomas Wolfe, bisogna dire che a quel punto del suo viaggio artistico e personale, forse veramente il regista non era ancora riuscito a sciogliere davvero tutti i nodi dolorosi della sua vita che si portava dietro come personale bagaglio di sofferenza, nonostante il suo averli nel frattempo notevolmente trasformati con formule più elaborate e appropriate rispetto alla dirompenza anche un po’ naive della sua opera prima, come dimostra la forma scelta per Salto nel vuoto. I due titoli, strettamente apparentati fra di loro, come si è visto, si differenziano quindi soprattutto in tale aspetto (l’approccio stilistico) che  in questa pellicola di chiusura di un ciclo, si manifesta  in una raggiunta e totale capacità di dominare la materia con un ritrovato, insolito esemplare rigore. Si conferma in pieno anche il talento innovativo riservato alla “scrittura” delle immagini, con quella sua capacità di passare senza traumi  o inceppamenti, dal registro naturalistico dell’impianto (il rapporto giornaliero dei due fratelli nella casa) a quello quasi espressionistico che sfocia nel fantastico, di trasfigurazione della realtà dei ricordi  (le apparizioni dei bambini, il materializzarsi di tutte le reminiscenze che affiorano dal passato): I bambini, poi, sono i fantasmi della casa – dichiarò Bellocchio rispondendo a una esplicita domanda nel corso di un’intervista - Sono gli abitatori che emergono  quando coloro che ci abitano adesso,  dormono. Sono, più che dei flash, i fantasmi inquieti della casa, senza pace, e che spariscono soltanto dopo la distruzione. Perché appunto non hanno più ragione di esistere.

Limpido ed esplicito dunque, ma anche carico di una profonda ambiguità metaforica affascinante ed avvolgente, perché come ho già detto, è proprio sotto il profilo della forma che si definiscono e si connotano meglio i cambiamenti: tanto era  secco, urlato, violento, animato da interpreti non tutti sempre esemplari quello del titolo d’esordio, quanto risulta invece  qui più raffinato, ricercato, maturo e circostanziato, un “perfetto” meccanismo ad orologeria, sapientissimo semplicemente nel far muovere la macchina da presa nelle labirintiche stanze dell’appartamento che è la scatola-prigione dei due fratelli protagonisti del racconto, millimetrica e precisa come una sonda che si muovo implacabile dentro un metafisico viaggio nell’inconscio.

E’ l’appartamento la cornice fondamentale e necessaria per  “contenere” e definire al meglio la tragedia che dentro si innesca e si consuma, un luogo così  importante, da essere stato riportato “ricostruito” e ridisegnato  in pianta, persino nel volume  che ne pubblicò la sceneggiatura, con una accurata e corrispondente legenda interpretativa (1- pianerottolo; 2- ingresso; 3- salone, e così via), al fine di consentire anche al lettore che potrebbe non aver visto il film, di collocare negli esatti angusti spazi della casa, le  parole e i fatti, perché davvero difficilmente scindibili dal contesto.

Ma andiamo per gradi e addentriamoci anche noi nei cunicoli e nei meandri di una storia dove un fratello e una sorella coabitano loro malgrado dentro lo spazio chiuso dell’appartamento che ha dato loro i natali, avvolti in un torbido rapporto sadomasochista che li isola dal resto della società. Era questo uno dei temi  centrali anche de I pugni intasca, che si reitera così anche in Salto nel vuoto,  ma con alcune importanti e sostanziali differenze: quella era una storia di inaridimento provinciale; questa è invece una storia di degradazione metropolitana; là eravamo nel laborioso nord, qui siamo in un centro-sud più ossequioso e attento alle tradizioni; Lou Castel e Paola Pitagora erano giovani, Michel Piccoli e Anouk Aimée sono invece molto più adulti e navigati (potremmo definirli in pieno climaterio). E ancora: il ragazzo de I pugni in tasca sterminava mezza famiglia, il giudice di Salto nel vuoto uccide invece se stesso, ma non senza aver covato per tutto il film, il sogno di veder morire la sorella (e ogni studioso o anche semplice lettore di Freud, sa bene che il suicidio è considerato da lui in psicanalisi, soltanto un omicidio mascherato, così che ogni ulteriore commento al riguardo, risulta superfluo).

Nella sua veste di giudice istruttore, Mauro, il protagonista maschile della storia, proprio nella prima inquadratura si affaccia a una finestra dalla quale, poco prima, si è buttata una donna, forse istigata al gesto da un certo Sciabola (un giovanissimo Michele Placido ancora alle prime armi) la cui voce è rimasta incisa sulla segreteria telefonica a stigmatizzarne la presenza.

Il “buttarsi”, quel “saltare nel vuoto”, rappresenta dunque proprio il tema centrale e ricorrente del film, che non a caso si apre e si chiude  con un “disperato” balzo al di là della finestra. Un tema che rimbalza assillante attraversando l’intera pellicola: Mauro infatti, segreto collezionista di cronache riguardanti i decessi per caduta dall’alto (una attenzione maniacale che denota da subito la sua ossessione attrattiva) viene spesso colto dalla macchina da presa nell’atto di chiudere premurosamente - o di spalancarla cinicamente - la finestra della camera di sua sorella Marta che  porta al terrazzo dell’appartamento, quasi a volerne incoraggiare (o suggerire) il suicidio come in una sotterranea “istigazione” indotta (la donna si limiterà però soltanto a buttar giù i vestiti e le bambole di quando era bambina, a compiere cioè una specie di rito che tende ad annullare la sua “dipendenza” da un passato che vuol rinnegare, qualcosa di molto diverso- addirittura in antitesi – da quello a cui mirava invece il fratello).

L’horror vacui  del vuoto, dunque, rappresentato qui da quel balcone aperto costantemente “presente”, che si configura in qualche modo come una “abbordabile” soluzione definitiva sempre possibile  e “a portata di mano”.

Ambiguamente conflittuale e deformato il rapporto che unisce i due fratelli, entrambi persecutori e vittime: Mauro e Marta  vivono così a ridosso l’uno dell’altra (si potrebbe dire quasi ai limiti dell’incesto), sempre impegnati e pronti a colpirsi, ad attrarsi e respingersi con l’indiscrezione tipica dell’amore-odio, come due personaggi  dell’inferno strindberghiano.

Si tormentano reciprocamente, si infastidiscono rumorosamente con sottile perfidia , mentre lei continua ad atteggiarsi liliale come un vero e proprio angelo della casa che tiene tutto in ordine, stira le camicie “al suo uomo” e gli taglia la carne nel piatto come una mammina premurosa (è  questa una sequenza di  straordinario impatto che può entrare a buon diritto nelle antologie del cinema della “cruauté”), e lui ostenta invece nei suoi confronti un’affabile ma non innocua superiorità  intrisa di sopraffazione maschilista, e snocciola irritanti scempiaggini che tendono alla provocazione sfiancante e reiterata.

Ed è proprio contro Mauro-Piccoli che Bellocchio (autore della sceneggiatura buttata giù a sei mani con Piero Natoli e Vincenzo Cerami) accumula connotazioni odiose in una specie di frenetico raptus per tutta la durata della pellicola, presentandoci l’uomo come il classico padrone,  goloso,  prevaricante, sadico, amorale e fascista che origlia spesso alle porte, tende al vittimismo compiaciuto (“Non conto niente”) e quando introduce di soppiatto l’amante nel sacrario familiare, le consegna come congedo,  il sacchetto delle immondizie da depositare nel bidone. Un poco raccomandabile individuo insomma, che sublima nei sogni e nelle fantasie la propria incapacità ad agire, la rinuncia a vivere, ad amare e ad intervenire sulla realtà, quasi infantile nel suo essere stizzoso, perfino capace di litigare con un innocente bambinetto per il possesso di una vecchia annata di Topolino.

L’unica cosa che non si capisce, è come mai un tipo così legga invece un giornale come La Repubblica che risulta essere elemento stridente ed estraneo alla sua personalità reazionaria (magari si tratta solo di una necessità produttiva che attiene ai canoni della pubblicità occulta, ma sarebbe stato meglio evitarlo questo elemento un po’ distorcente). A dire il vero, il bieco protagonista deve aver letto anche Delitto e castigo perché nei confronti di Sciabola, che è un attore d’avanguardia decisamente canagliesco e alquanto manigoldo, si rivelerà poi ambiguo come e più di Porfirij davanti a Raskolnikov: assolutamente convinto che sia stato proprio lui  a provocare la mortale caduta dalla finestra nella scena iniziale, farà in modo di giocare questa carta e di servirsene per cercare di “liquidare” la sorella attraverso i suoi “servigi”.

Fra Marta e Sciabola si instaurerà invece una inaspettata  relazione sentimentale, sia pure senza sbocchi per il futuro, che costituirà però la molla per far maturare nella donna una maggiore coscienza di sé che le consentirà di acquisire la necessaria determinazione per dare una svolta alla sua esistenza: vissuta fino a quel momento nel limbo dell’infanzia, fra fantasmi anche visualizzati di bambini che richiamano remote scene d’infelicità domestica intorno a un congiunto pazzo, Marta diventerà così sempre più insofferente ai ricatti familiari imposti dal fratello, come dimostrerà proprio nella scena del battesimo, dissacrata e dissacrante nel più puro e genuino stile bellocchiano, fra parenti imbarazzati e fanciulli che suggeriscono agli adulti ignari le formule di un rito che loro hanno dimenticato.

Il giudice vedrà così vacillare (e poi crollare del tutto) il suo sistema repressivo:  mal sopportando le miniribellioni della sorella che sente sfuggirgli fra le dita, e infastidito dal pericolo dello spodestamento che avverte, si sentirà  “minacciato” nella sua integrità proprio da quegli inaspettati cambiamenti: tutto culminerà così nella visione scaturita dal suo inconscio disturbato -simbologicamente molto importante – che gli fa immaginare la casa invasa dai ladri guidati proprio da Sciabola e da lui sottoposta a ogni sorta di sfregi, mentre i bambini-fantasma osservano incuriositi.

Costretto così suo malgrado a rivedere i propri modelli, a riprendere le misure e a “riconsiderare le distanze” nella nuova realtà che si è venuta a creare, il giudice,  come l’uomo che annullava il tempo di Fachinelli, vivrà il cambiamento come una perdita totale non solo di una dominazione “spirituale”, ma anche e soprattutto di se stesso, di un qualcosa cioè che non ha altra alternativa sen quella della morte, del “salto nel vuoto” che concluderà la parabola.

Si stabilisce così un’equazione significativamente ambigua fra ladri, bambini e pazzi, in una specie di rapsodia che coagula proprio – come già sopra detto – alcuni dei grandi temi che animano il cinema di Bellocchio, con una cinepresa che è sorretta e governata spesso da una lucida volontà di creare un costruttivo rapporto dialettico fra il dentro e il fuori della scena che è chiamata a descrivere e che determina quel suo volteggiare furtivo fra le stanze e nei corridoi fra i quali si aggira  quasi a respirare la claustrofobia di quell’ambiente circoscritto, ma non si fa mai del tutto sommergere ed “annientare” dal chiuso stantio che aleggia nel non “vissuto “ degli abitanti della casa: è più propriamente un occhio inclemente che spia implacabile con quel suo stare sovente fuori della stanza, oltre la porta, ma senza mai rompere il rapporto vitale che la lega a quella scena  che è la matrice stessa della sua conoscenza (ancora Barbera e Volpi): perseguita, bracca, insegue, cerca il giudice nei meandri di corridoi, porte e stanze in quell’appartamento infinito che non ha più un luogo sicuro in cui rifugiarsi  (la sequenza che precede  e anticipa il suicidio finale dell’uomo), si ferma sulla porta della camera di Marta quasi a voler indicare che non c’è più scampo e che il destino è obbligato e  preclude ogni via di fuga. Lui si sente perduto e tradito e la cinepresa lo spinge, lo “butta letteralmente fuori”, oltre il  balcone, nel vuoto, giù fino a sfracellarsi sul selciato.

Condotto come una sorta di giallo psicologico, il film investiga dunque con sottigliezza e competenza, il legame di muta dipendenza psicotica che lega i due protagonisti. Benché questa condizione sia accentuata e fortemente amplificata dalla sua dimensione claustrofobica (straordinario e assolutamente funzionale l’apporto della scenografia che ricrea il luogo-spazio prigione di un austero appartamento stile anni ’30) oltre che dalla condizione fratello-sorella dei personaggi, il film riesce indirettamente a rispecchiare e trasmettere il disagio di un aspetto più generale che è quello della crisi dei rapporti di coppia fondati sull’esercizio maschile del dominio e su quello femminile della sottomissione.

Assieme alla consueta attenzione per le dinamiche familiari e le turbe psichiche, il film rivela inoltre, nel personaggio dell’attore (vitale ma al tempo stesso superficiale e cinico) lo sforzo e la volontà di voler prendere definitivamente le distanze – pur non rinnegandolo e soprattutto non disconoscendolo – dal  velleitario ribellismo delle precedenti opere per diventare più concreto osservatore di una realtà fortemente destabilizzante analizzata come al mocroscopio.

E’ semmai il mondo “altro”, quello esterno alla sfera familiare dei due protagonisti, a porsi in maniera un po’ più convenzionale di quanto avrei voluto che fosse (vedi la scena sul barcone degli attori, uno dei passaggi più discutibili e meno “necessari”, dove al suono di una tromba alla Fellini – un’atra delle attrazioni costanti che ogni tanto riaffiora nel cinema di Bellocchio - Marta può di nuovo sorridere, o ancora nel quadretto di serenità che offrono la cameriera Emilia e il suo bambino,  amorosamente interpretati da Gisella Burinato – in quegli anni compagna e moglie del regista - e dal figlio Piergiorgio: Emilia emblematica figura un po’ utopica,  è una donna naturale e genuina che sbriga i lavori fischiettando, gioca a rincorrersi col bambino nel tetro appartamento, e sarà poi proprio lei, con un invito domenicale al mare, a far evadere Marta dalla “casa-prigione”, lasciando così Mauro solo nel pieno della sua disperazione suicida, diventando elemento “funzionale” ma un tantino emblematico).

Di gran tono, naturalmente, l’apporto degli attori (Piccoli e la Aimée furono insigniti della premio per la migliore interpretazione al festival di Cannes di quell’anno) magnificamente coadiuvati da due straordinari “doppiatori”, i bravissimi Vittorio Caprioli e Livia Giampalmo, capaci di ricostruire e adattare i loro viruosistici sussurri sulle preziose labiali delle bocche di Piccoli e della Aimèe con assoluta, totale aderenza,  tanto da renderli praticamente inscindibili dai quei volti e da quei corpi che li incarnavano “fisicamente” sullo schermo. Tanto corrispondenti insomma, da farci quasi rimpiangere (una volta tanto e senza nulla togliere ai due ineccepibili interpreti titolari dei ruoli anche per le leggi del mercato e delle coproduzioni) che non siano stati proprio loro gli effettivi protagonisti anche “visivi” della pellicola: ne avrebbero avuto la capacità e il carisma necessario credo, senza minimamente sfigurare nel confronto..

Di straordinaria qualità anche l’apporto di tutto il comparto dei collaboratori creativi ottimi e perfettamente omogenei al risultato e ottimi sotto ogni punto di vista (l’operatore Beppe Lanci, magistralmente impegnato in un’arrischiata lotta contro le tenebre portata avanti e vinta con successo e competenza; il contributo scenografico di Frisanti e Fago che hanno immaginato e “costruito” quello straordinario appartamento-trappola; il supporto musicale avvolgente di un ancora poco conosciuto Nicola Piovani, e gli appropriati costumi di Lia Morandini).

 

Arcigno saggio sulla nevrosi domestica girato con una abilità straordinaria, Salto nel vuoto è, come si è visto, anche il titolo che comincia a mostrare la sotterranea influenza del rapporto  “simbiotico” che il regista  avrà per lungo tempo con Massimo Fagioli. Lo si evince chiaramente non solo da ciò che il terapeuta scrive nella prefazione alla sceneggiatura: 1980.Il punto di arrivo di una storia, di una ricerca, di una lotta continua contro la distruzione degli uomini, si pone come punto di partenza, come opposizione lucida a quanto gli uomini, pur sempre in fondo, forse, sapendo, non hanno mai voluto denunciare. Non hanno saputo farlo. Quindici anni. Condotto dall’applauso corale a fregiarsi della palma del successo, giovane per reggere la sfida che aveva lanciato al potere, troppo poco astuto per saper evitare le trappole che lo stesso potere nasconde dovunque per uccidere colui che schiaffeggia, perde la perla trovata per caso a vent’anni. Egli non sa che il chiasso che i coribanti fanno per proteggere il bambino dalla violenza degli altri, nasconde anche e soprattutto l’odio comune degli uomini contro tutto ciò che è ripetizione. Ingenuamente fiducioso di altri che egli crede, come i bambini, amanti dei bambini, sposa lo scrittore come un credente che non si è posto mai il compito di corrugare la fronte nel cipiglio della scienza. Egli non sa ancora di coscienza e di inconscio, di manifesto e latente, di buona fede e di pulsioni. Sensibile agli eventi della storia, lascia affiorare, protagonista che anticipa quanto accadrà poi, l’intuizione geniale della rivolta alle istituzioni (…) Ora che è guarito dal sordomutismo, perché non paghi, bisogna che si faccia la sua storia. Ha sentito, interpretato, detto. Ha fatto parlare gli attori con la maestria che lascia la gente a cercare aggettivi superlativi. E dicono della bravura di Giorgio, di Piccoli, di Aimée, di Burinato, di Placido. Ma non dicono della bravura del regista che comunica la storia, che si esprime per far interpretare ad altri quanto è nella sua fantasia. Negano l’arte di far realizzare ad altri quanto il volere dell’autore determina. E lui si lascia negare, uccidere, derubare, e non può fare altrimenti fintanto che non realizzerà, nel tempo, il quando, il come e il perché è riuscito a fare un bambino. Fin quando non troverà il significato reale delle parole (…) come cercando una illuminazione improvvisa in un’altra lingua. Ma l’arte come trasformazione degli esseri umani non è illuminazione, è prassi di ricerca costante. E’ quanto è riuscito a fare, un film che i più sensibili dichiarano essere una seduta analitica  che è conseguenza di più di quattro anni di lavoro e ricerca. Non facile da ricostruire per l’intreccio continuo tra fantasia e conflitto, tra realtà e fantasmi, tra interesse e negazioni. Storie individuali e collettive, eventi personali ed eventi storici, pensieri personali e cultura secolare. E lui, per primo, ci insegna, nel film, della coscienza e dell’inconscio, del manifesto e del latente, della buona fede e delle pulsioni. Ci insegna della genialità del rappresentare e del parlare allorché il fatto particolare e concreto (…) diventa storia al di là della novella (…),  ma anche e soprattutto, dalla seguente dichiarazione, rilasciata proprio da Bellocchio nel corso di un’intervista di qualche mese successiva all’uscita del film : Alcuni mi dicono: “ma perché ti occupi sempre della follia?” Ma perché occuparsi della follia significa occuparsi di tutto, rispondo. (…) E proprio a tale riguardo, il matto delirante del flash-back esprime una sorta di passaggio generazionale della follia. (…) Quando ero bambino, il matto era quello. Adesso è di un altro tipo. Sono persone normali, perbene (…) sul problema dell’inconscio sono definito  in genere un “antifreudiano”. Non so se sia proprio esatto  definirmi così, ma è certo che tratta di una pratica di analisi che non mi si confà. Il freudismo, in generale, non ti propone altro che la sopravvivenza, insegnandoti a gestire i tuoi oggetti interni, non mette in discussione questa società a la sua ingiustizia. Riducendo la terapia alla ricerca dei traumi, ti prepara ad essere quello di “prima”, a sopportare come prima la vita. Ti fa stare solo un po’ meglio di come ti sentivi prima, dimenticando però che il sintomo di solito è un segno positivo: quando si comincia a stare male, vuol dire che si comincia a stare in realtà meglio, che si è capito che si deve cambiare qualcosa. E’ una pratica che non mi interessa semmai; credo ancora che il problema sia quello di cambiare la società. e che la psicanalisi debba proporre una reale guarigione. Preso da un altro punto di vista, è il discorso sull’Edipo rovesciato. Il nodo è che dobbiamo rifiutare questi “padri”. In questo, il ’68 non ha saputo progettare. Ha saputo soltanto sputare in faccia ai padri; ma è stata facile profezia, quelli che contestavano sono a loro volta diventati “padri”, sono a loro volta diventati persecutori. Non si tratta di uccidere il padre e fare l’amore con la madre. Così, Edipo sostituisce sul trono Laio. Il discorso è di fare,  prima,  l’amore con la madre, perchè solo dopo, essendo stati capaci di fare l’amore con la madre si ha la capacità di uccidere il padre, di rifiutarlo, di disubbidirgli, di ribellarsi, senza la dannazione di ripercorrerne la strada. In questo, io mi limito a riformulare con le mie parole quanto ha già scritto Massimo Fagioli proprio sul “rovesciamento dell’Edipo” in Psicanalisi della nascita e castrazione umana.

Proprio alla luce “interpretativa” di quanto emerge da tali dichiarazioni, e da tutto ciò che è stato sopra esposto, il discorso diventa allora più complesso e articolato fino ad assumere le sembianze di uno specchio che riflette i processi interni all’uomo che qui sembrano ulteriormente prendere forma e accentuarsi in quella particolare fase di transizione che ha già dato il via a quel lungo periodo di ricognizione psicoanalitica, e che in Bellocchio sembra facciano perno sopratutto sul nodo non completamente sciolto dell’influenza dei “padri”, o ancor meglio, sull’eterna ossessione delle strutture autoritarie fuori e dentro di noi.

Questa volta dunque è un nucleo familiare fatto di niente, di minuzie, di gesti abituali e ripetitivamente conformi, che diventa l’elemento centrale di un teso, alienato rapporto di crudele  prevaricazione tra un fratello e una sorella che, come già si è visto, sono in fondo e “di fatto” una  vera e propria “coppia” anche se anomala, ma “coppia” a tutti gli effetti, i cui percorsi paralleli ed uniformi (univoci) prima si incrinano e poi si divaricano (è ancora una volta il consueto, ricorrente motivo della famiglia visto e interpretato come concentrazione di rapporti destinati a imprigionare e opprimere, che diventa l’esemplificazione prioritaria della forma di ogni altra relazione individuale dell’uomo nell’ambito della  società in cui vive e prolifica. Un fratello e una sorella… un carnefice e la sua vittima… due figure che sono semplicemente le due facce antitetiche della stessa medaglia che si rispecchiano l’uno nell’altra  e che si scambiano costantemente il ruolo e la parte, come in un gioco al massacro che sembra non voler mai avere fine, e che non finirà, almeno fino a quando non si riuscirà ad interrompere il flusso).

Con giusta intuizione, Bellocchio e i suoi collaboratori, hanno fatto dell’uomo un giudice – e quindi un uomo di “legge”- in cui agisce una evidente componente sociologica di indiscussa matrice meridionalista (la biascicata cadenza partenopea di Caprioli ne accentua fortemente e giustamente la provenienza caratterizzante), abbarbicata cioè dentro l’inamovibilità delle tradizioni, ma che a quelle non si ferma, incapace di resistere alla tentazione di andare oltre, un oltre che spesso si stratifica volutamente attraverso il condizionamento derivante da quel fascino psicologico ed esistenziale che è proprio di una parte della nostra piccola borghesia, fatta di sopraffazione degli inferiori, delle donne, dei diversi, e radicato (oggi più che mai) nel terreno dell’inadeguatezza economica, dell’inaridimento sentimentale, o dell’assenza sempre più totale e preoccupante di cultura.

Il giudice si è costruito dentro questo appartamento-labirinto-sepolcro, un suo ordine  codificato fatto di norme morali astratte e pietrificate, al quale si aggrappa come a una “protezione magica” per non mettersi in gioco ed evitare di doversi davvero confrontare con un possibile, reale progetto di vita personale al quale sembra avere da tempo rinunciato. L’essere, e soprattutto l’imporsi quel modo di vivere, non ammette però possibili infrazioni al codice (nemmeno quella istintuale di un rapporto concreto con l’amante)  che farebbero correre il rischio di intaccare la corazza del proprio ossessivo sistema coercitivo (che è poi costituito dai rituali del lessico familiare, dalle cene preparate e consumate  da solo o con la sorella, dalle memorie infantili di bambole e fumetti da condividere con le medicine, dalle cerimonie con le quali si battezzano sempre nuove Marte da preparare alla sottomissione). E’ dunque teso a far rimanere ancorato l’uomo alla propria personale identificazione nei modelli che ha costruito e accettato, che rappresentano la sicurezza,  il non rischio, anche se automaticamente costituiscono come conseguenza finale, il pericolo e il vincolo di restringere fino quasi ad annullarlo, il “soggetto della vita”.

Ma l’appartamento per quanto anomalamente “ermetizzato”, non può non avere delle fessure, presentare delle lacerazioni che fanno passare (o anche soltanto intravedere) ciò che c’è al di la di quei muri, così da rendere alla fine del tutto inutile quell’ossessivo ostinarsi a voler tener chiusa la porta: c’è la luce che fende la penombra costante degli ambienti a parlare del mondo; c’è il bambino della domestica al quale all’inizio è impedito l’accesso ma che non potrà essere escluso per sempre a ricordare che la vita va avanti,  c’è lo stesso Sciabola , impropriamente (e malamente) utilizzato per i suoi progetti di potenza e di morte che gli si rivolteranno contro, perché alla fine Marta con il rapporto sessuale consumato nella camera da letto, profanerà proprio con lui la sacralità della casa rifugio, ne altererà il senso e l’equilibrio rendendo il fatto una trasgressione devastante e insuperabile, uno sconquasso profondo  che coincide con il ritorno del rimosso, e che diventa conseguentemente la cartina di tornasole che porta a galla e denuncia la follia del quotidiano (ferocemente metaforizzata nel delirante ritorno del matto in famiglia, traccia indelebile di un passato lontano, di una minaccia misteriosa, fantasmatica, come lo sono sempre i ricordi, trattenuta e sommersa “dentro” la cupa nevrosi di Marta, vergine sacrificata alla disumanità dell’esistenza borghese).

Con Salto nel vuoto, ci si  concentra e immobilizza allora nell’osservazione spietata della vita dentro uno spazio chiuso che rappresenta fisicamente e metaforicamente qualcosa di più e di peggio di una prigione dalla quale non si può uscire, e che simbolicamente si identifica proprio nella famiglia con i suoi vincoli indistruttibili. La scena costruita come un labirinto pieno di insidiosi pertugi, le luci soffocate dalle ombre fitte della splendida fotografia, sono la base che sorregge e rende evidente, il significato di un conflitto che come si è già visto, si rivelerà mortale, fra  soprusi e  raffinate, sotterranee torture psicologiche che minano la convivenza di quelle due persone che non possono che odiarsi, come non possono che rimanere serrate dentro quel “carcere” autarchico e autoisolante. L’uno vive nell’altro e dell’altro dunque, e le reminiscenze  quasi bergmaniane di alcuni passaggi, non fanno altro che rafforzare le ossessioni profonde del regista, portandole definitivamente alla luce e traducendole in immagini espressive cariche di un fortissimo impatto emotivo che non lascia scampo: poiché gli è vietato uscire, quando crede che tutto per lui sia perduto, il giudice può soltanto “evadere”, trovare una via di fuga,  gettandosi dal terrazzo.

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