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Luci d'inverno

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Luci d'inverno

di logos
9 stelle

Il vuoto della celebrazione eucaristica del pastore

In un bianco e nero spettrale viene ripresa, all’interno della chiesa di Mittsunda, la messa e l’eucaristia celebrate dal pastore Tomas: durante l’assunzione del corpo di Cristo assistiamo a volti trepidanti, in attesa, velati da stanchezza e angoscia, come se la presenza eucaristica non bastasse a riempire il vuoto di quei volti, che guardano lontano, verso le loro possibilità infrante, disperse in un tempo non più recuperabile, o in un tempo che è oltre il tempo, come un miraggio lancinante.

 

ll sacrestano, il suicida, Marta

Accanto al pastore si raccolgono le figure dei fedeli, in particolare il sacrestano Algot, che darà un'impronta essenziale nel finale, i coniugi Persson, che invece appaiono appesantiti da un dolore spirituale inenarrabile, perché il marito, sofferente di mania depressiva, si sente minacciato da un mondo che non assicura più la presenza di Dio, dal momento che anche la Cina sta per conquistare l’atomica. Ma il pastore non ha tempo per sentire il dolore di quest’uomo, e lo esorta a ritornare più tardi, per parlare da solo con lui, senza la moglie. Prima che l’uomo ritorni, la ripresa si focalizza su Marta, una giovane maestra che è stretta in un legame d'amore irrisolto con il pastore, che cautamente gli si avvicina, ma tutto lascia intendere che il pastore vuole stare da solo, deve pensare alla celebrazione del pomeriggio, al coniuge Persson che ritornerà fra venti minuti, alla sua propria fede, che è sempre più un’inquieta ricerca di un qualcosa che dilegua.

 

La lettera di marta

Lasciato solo da Marta, egli ha il tempo di contemplare in una foto la moglie morta da quattro anni, per la quale prova e provava una passione d’amore assoluta, mentre ora è nella desolazione, perché la fede in Dio non lo sostiene, anzi, progressivamente gli sta diventando un peso, da cui vorrebbe sbarazzarsi, al punto che lo stesso crocefisso gli sembra un’icona assurda. Poi legge la lettera che gli ha lasciato Marta. E’ una lettera nella quale la donna innamorata è in grado di scrivere cose che altrimenti non saprebbe dire oralmente, perché le “parole confondono”. Durante la lettura, compare il volto di Marta che proferisce quelle stesse parole che il pastore legge, in cui emerge la sua (di lei) professione di ateismo, e nonostante ciò, per amore del pastore, gli ricorda che appena un anno prima gli aveva chiesto di pregare per lei, per il suo eczema, che dalle mani si espandeva per tutto il corpo, mentre Tomas si scusava di dimenticarla nelle sue preghiere, e quella dimenticanza già segnalava che non le voleva più bene, e che in più, nonostante la sua  proclamata e ufficiale fede, aveva ripugnanza del corpo di lei martoriato dall’eczema. Nella disperazione in cui l’aveva gettata, Marta, prosegue incalzante nella lettera, un giorno, pur essendo atea, si mise a pregare, solo per l’amore che provava per Tomas: “avevo chiesto una luce e l’avevo avuta. Ho chiesto uno scopo e l’ho avuto. Quello scopo sei tu”.

 

La fede del pastore

Ma il pastore, dopo aver letto la lettera, non sembra essere colpito da queste parole, il suo dolore ha un’altra origine, è l’esito della morte di sua moglie, l’unica che era in grado di comprendere la sua fede, perché la sua fede non è quella che si può condividere con le genti, con il giorno, con la luce, è un fede che vuole custodire Iddio dalla mondanità, e si spinge sempre più nella solitudine, nel privato, in quello spazio intimo nel quale solo sua moglie poteva entrare con elegante affinità, incommensurabile a tutto il resto dell’esistenza terrena. Mentre il pastore riflette nei suo ricordi, nella sua fede, gli sopravviene, come in un lampo, che oramai la sua fede è disgregata… è divenuto un uomo senza dio, nel più completo abbandono a se stesso. Ciò lo angoscia, ma al tempo stesso sa, finalmente, che non credere è la cosa più facile, perché senza Dio nulla sarebbe più da spiegare, tutto diventerebbe naturale, anche la morte stessa. Sembra quasi che le sofferenze del mondo non siano altro che l’effetto dello svanimento della luce di Dio, che attraversando il mondo in un istante con la sua incarnazione gli abbia fatto prendere coscienza dell’inverno in cui è sprofondato, come se il contatto fulmineo dello spirito abbia lascato nel mondo una ferita indelebile, aperta al nichilismo, e che se non fosse stato per quel contatto tutto sarebbe più semplice, in sé, senza l’inquietudine del negativo della coscienza.

 

Il crollo della fede del pastore e la resa di Persson

Quando ritorna il coniuge Persson, oramai il pastore sa di aver perso la fede, di non poter aiutare quell’animo inquieto, terrorizzato dai cinesi, dal loro comunismo e dalla loro atomica. L’unica possibilità è quella di fargli comprendere che non vale la pena suicidarsi, non tanto perché sia un peccato, ma perché gli altri hanno bisogno di noi. Ma Tomas sente le proprie parole con il loro significato come un vuoto suono, perché non più sostenute da una fede. Tant’è che, poco dopo, il pastore viene informato che Jonas Persson si è ucciso con un colpo di fucile alla nuca, lasciando la moglie e i loro tre bambini.

 

Il dialogo tra il pastore e Marta

Dopo questi tragici eventi, Tomas e Marta hanno un dialogo decisivo e agghiacciante: Marta gli rinnova l’amore, ma Tomas, sempre più chiuso in se stesso, le dice chiaramente che non prova più amore per lei, che il suo unico desiderio è di andarsene via da tutte le preoccupazioni mondane, dalle cure che lei imperterrita gli dona, perché tutto questo chiacchierio è vano e sordo, maleducato, e stona con il silenzio di Dio. Nonostante questo rifiuto oramai dichiarato, Marta accompagna il pastore nella parrocchia dove deve tenere la funzione nel pomeriggio, dopo il sopralluogo al cadavere e aver avvisato la famiglia del defunto.

 

Il Pastore e il cadavere, nel silenzio di Dio

Durante il sopralluogo, assistiamo a una scena quasi grottesca: un pastore senza fede di fronte a un cadavere di un uomo appena suicidato, tutti e due immersi in una natura sorda e indifferente, resa tale dal rumore insistente del fiume scrosciante, che, come il tempo, è irreversibile, non si ferma mai, e tutti i sussulti che può trasmettere non sono altro che la proiezione di una coscienza trafitta dalla materialità, la quale invece sembra essere priva di coscienza. Ma cosa può la coscienza di Tomas di fronte a un morto? Non resta che recarsi alla parrocchia per celebrare la funzione, con tutta l’insopportabile stanchezza di un’esistenza che si trascina senza più fede, e che adesso si riscopre di non averla mai avuta, nonostante non possa uscire dal silenzio di Dio e gettare via di colpo la religiosità

 

L'esistenza nel silenzio di Dio e l'ultimo uomo

Viene da chiedersi: se Tomas scopre di non avere più la fede, perché non si abbandona alla materialità della vita, all’amore della bella Marta, che potrebbe davvero donargli un nuovo significato del mondo, per se stesso e per tutti gli altri? Perché rimanere un pastore con una coscienza inqueta, tutta piena di abbandono? Sono domande che Tomas stesso si fa, a cui non sa rispondere; domande che la stessa Marte gli profila, ma alle quali Tomas risponde “sono un pastore”; come se in tutta questa angoscia del silenzio di Dio restasse ancora una base, la più filistea, quella dettata dalle convenzioni. Ma in realtà qui Bergman a mio avviso vuole sottolineare che c’è una bella differenza tra l’uomo ateo e l’uomo che rinnega il suo credo nel silenzio di Dio. Nel primo caso abbiamo a che fare con la figura del borghese, l’ultimo uomo, il simbolo presente nello Zaratustra di Nietzsche. L’ultimo uomo è in cerca della felicità, ha un occhiolino per tutto e per tutti, è il positivista, il semplificatore reificante, che trova compromessi con tutti e su tutto, è, in senso heideggeriano, l’esistenza inautentica che fa e dice come Si dice e Si fa. Ma tutti i personaggi che costellano il dramma di un giorno di Luci d’inverno non sono fatti in questa misura. Sono toccati dal silenzio. La stessa Marta, che si professa atea, in realtà ha un rapporto tutto suo con Dio, perché sa che l’amore non è riducibile all’opportunismo, sa che non può e non deve tradire, anche se non c’è più niente di salvifico. Prima che venga celebrata la messa, Marta ha un dialogo con l’organista. Ebbene, tra tutti i personaggi dell’opera, costui è proprio l’ultimo uomo. “Vattene, finché sei in tempo, da questo luogo... hai tutta una vita davanti”. Costui pensa solo alla sua musica, in lui il mondo fila liscio, non ha più sofferenze, ma è come se si spegnesse; dal suo vitalismo pragmatico promana un mondo privo di problematicità, e tutto viene coperto da una finzione rispettabile in cui viene tradita l’esistenza. Forse è anche per questo che Tomas non cessa di restare nel silenzio di Dio, così come, a suo modo, non cessa di restare in quel silenzio la stessa Marta.

 

L'abbandono

Proprio verso la fine del film, ricompare Algot, che abbiamo detto che svolge una parte essenziale. Mentre sta per allestire l’ambiente per la funzione chiede il parere di Tomas su alcune riflessioni che ha fatto leggendo e rileggendo i Vangeli. E’ sorpreso della sofferenza di Cristo, che non è per nulla così grave in paragone a quella che devono sopportare tutti gli altri uomini. In fondo è morto giovane, l’agonia non è poi stata lunga, non ha dovuto sopportare per molto tempo tutte le sofferenze fisiche che un uomo si porta dietro per tutta una vita. Ma forse, conclude Algot, la maggiore sofferenza di Cristo è l’aver compreso che i suoi discepoli lo avevano abbandonato, non avevano capito nulla del suo messaggio. Pietro lo rinnegò, gli altri fuggirono. E poi, come se non bastasse, successe la cosa peggiore: sulla croce dovette invocare con un grido straziante “Padre, perché mi hai abbandonato”. In quel momento, dalle parole di Algot, sembra emergere nel pastore una nuova rivelazione: anche Dio è vissuto nel silenzio di Dio, ma allora il suo silenzio non è altro che la sua presenza…

 

Interpretazioni

Il silenzio di Dio, forse, non è altro che luce d’inverno, lampo esile nell’oscurità, sofferenza che si apre nell’orizzonte di un’attesa che riscatta l’immanenza e la trasfigura nel suo naufragio…?!

 A questo punto, altre interpretazioni si aprono, ma quel che conta è che comunque si rinnova un percorso, non importa quale sia la direzione, importa il percorso dell’esistenza, che come tale non è mai rettilineo, è sempre una possibilità, con tutta l’angoscia che esso comporta, ma che non può essere soffocato in nome di una felicità uniformante e cimiteriale… Perchè un'esistenza, anche la più irrigidita nella sua parte, come quella di Ester o di sua sorella (ne Il silenzio), non può essere felice pena la sua liberta di essere nell'angoscia; non può essere oggettivata e misurabile... nel mutismo dei fatti, per quanto equilibrati e rassicuranti e confortevoli siano i fatti.

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