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Come in uno specchio

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Come in uno specchio

di vermeverde
8 stelle

Questo film, girato nel 1960, è noto per essere il primo della cosiddetta “trilogia del silenzio di Dio”, comprendente anche “Luci d’inverno” e “Il silenzio”, in realtà non riconosciuta da Bergman proprio a causa del suo contenuto che riteneva troppo didascalico.

La trama è incentrata sul dramma di Karin (Harriet Andersson), figlia dello scrittore David (Gunnar Björnstrand) moglie del medico Martin (Max von Sydow) e sorella maggiore di Minus (Lars Passgård); questi si sono riuniti su un’isoletta del Mar Baltico, Farö (poi divenuta il buen retiro di Bergman), per una breve vacanza. La struttura è quella di un dramma da camera del teatro di August Strindberg: unità di tempo e di luogo e solo quattro personaggi tutti oppressi da un malessere interiore. Sebbene derivato da una forma teatrale il film non è teatro filmato ma puro cinema per la peculiare e geniale resa visiva che sottolinea i drammi psicologici dei protagonisti: in questo Bergman è coadiuvato dal grande direttore della fotografia Sven Nykvist.

Lo spessore drammatico della narrazione è dato dalle relazioni dei protagonisti, inizialmente contenute nell’ambito di una disinvolta cordialità ma larvatamente conflittuali. Il punto di rottura si ha quando Karin scopre che il padre ha sfruttato la sua malattia per la propria carriera. Il lato oscuro e tormentato di David e Minus (entrambi immaginativi, scrittore il primo con aspirazioni letterarie il secondo) è catalizzato dalla relazione e dal confronto che hanno con Karin e che proprio “come in uno specchio” il loro malessere si riflette ed è percepito. I punti di svolta nella vicenda sono la discussione fra Martin e David in cui lo scrittore ammette i propri errori e un tentativo di suicidio e il rapporto di Karin con Minus che la fa poi precipitare in una crisi e, alla fine, conscia dell’impossibilità di sopportare la dicotomia fra la razionalità della vita quotidiana e il visionario e irrefrenabile impulso verso il divino, decide di farsi ricoverare in una clinica psichiatrica.

Karin, l’unico personaggio femminile è anche il più positivo, nonostante i suoi sbandamenti nella ricerca del divino percepito come desiderio d’amore anche fisico come la più alta e sincera espressione dell’animo umano in grado di trascendere gli egoismi e di riempire il vuoto esistenziale: l’ansia d’amore senza limiti la porta a travalicare la razionalità e la normalità finché l’impossibilità di sopportare questa dicotomia la fa decidere di entrare in una clinica psichiatrica: è l’unico personaggio a decidere il proprio destino.

Martin, il marito medico, angosciato dal non riuscire ad avere un rapporto condiviso con Karin che non può guarire dalla sua schizofrenia non riesce a superare questa incomprensione e rimane piattamente ancorato alla realtà esteriore: è la figura più negativa dei quattro, incapace di un’evoluzione.

Il padre, che ha egoisticamente trascurato i figli per la propria carriera e che ha usato a suo vantaggio la malattia di Karin, ha comunque preso coscienza dei suoi errori e della sua avidità di successo e alla fine riesce a colloquiare con il figlio affermando, forse un po’ troppo didascalicamente come detto da Bergman stesso, l’equiparazione fra amore e divinità. Minus è un immaturo in cerca della propria identità, astioso verso il padre che lo trascura e incapace di resistere al morboso desiderio d’amore di Karin, ma anche lui compie un’evoluzione, riavvicinandosi al padre.

Gli elementi visivi con i quali Bergman connota la vicenda, unitamente ad un efficace montaggio ed a inquadrature di intensi primi piani, sono la luce, mutevole e cangiante in armonia con la situazione drammatica, l’insistenza con la quale negli interni le finestre sono poste al centro dell’inquadratura mostrando esterni indistinti illuminati soffusamente, le lame di luce che da porte aperte tagliano gli interni oscuri, come simboli del malessere interiore di persone che anelano verso un “altro” esterno e superumano.

Grande pregio del film è anche l’intensa e sentita interpretazione degli attori prediletti dal regista, fra i quali svetta la straordinaria Harriet Andersson, e del giovane Lars Passgaard.

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