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Notti magiche

Regia di Paolo Virzì vedi scheda film

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La recensione su Notti magiche

di mm40
8 stelle

Premio Solinas 1990, i finalisti sono tre giovani sceneggiatori molto diversi fra loro: l’esuberante toscano Luciano, il timido e coltissimo Antonino, siciliano, e la bella e nevrotica Eugenia, romana. Vince Antonino ed Eugenia invita lui e Luciano a trascorrere la notte da lei, nella grande casa vuota dei suoi. Nei giorni successivi il trio si inserisce nei meccanismi del cinema italiano grazie all’interessamento del produttore Saponaro, vulcanico e spavaldo nonostante la decadenza cui sta andando incontro. Quando Saponaro viene trovato morto, i primi indiziati sono proprio Luciano, Antonino ed Eugenia.

Virzì ritorna sul grande schermo con un grande film: Notti magiche vive di una sottile malinconia – ben esemplificata dalla nostalgia per il mondiale casalingo gettato via a Napoli in quella terribile notte di inizio luglio – e di impietoso sarcasmo, per raccontare la fine dei devastanti, ipocriti anni Ottanta e con loro dell’ultima stagione del grande cinema italiano. Piuttosto che, come si è sentito dire spesso, a Fellini o a Truffaut (dimostrando poca fantasia: perché ogni volta che si parla di metacinema si finisce sempre per citare in automatico 8 ½ ed Effetto notte), questa pellicola va accostata al Kazan degli Ultimi fuochi, che mostrava con lo stesso cinismo crudele lo sgretolarsi di un sistema produttivo e la rovina delle fortune economiche e dei grandi talenti a esse aggrappati; o ancora meglio allo Scola di quel C’eravamo tanto amati il cui terzetto di protagonisti viene evocato molto da vicino da quello al centro di Notti magiche. Certo, Fellini c’entra comunque parecchio, non solo perché chiamato ripetutamente dentro alla storia: lo ricordano soprattutto un certo sguardo sornione su Roma e svariate scene corali nelle quali si accavallano con leggiadria più personaggi e più visioni del mondo, che vanno a sommarsi in un carosello esistenziale assolutamente in linea con la poetica del Maestro riminese; ma i tributi al cinema nostrano del passato, dei mostri sacri, qui addirittura si sprecano. Tanto che è difficile riconoscere tutte quante le citazioni e gli omaggi (o le caricature, come nel caso di Saponaro che pare una brutta copia di Cecchi Gori) presenti nel film; fra i tanti personaggi meritano però una nota di encomio quelli affidati a Roberto Herlitzka e a Paolo Bonacelli, attori già di loro monumentali, mentre più traballanti riescono quelli per l’appunto di Saponaro/Giancarlo Giannini (anche qui c’è solo da levarsi il cappello), del bizzarro Virgilio/Emanuele Salce (bravissimo in un ruolo un po’ buttato lì, a un certo punto come dimenticato nei meandri della trama) e soprattutto di Fosco/Andrea Roncato, senza ombra di dubbio una sagoma mal definita la cui presenza nel complesso della vicenda non sembra fondamentale (e l’alternanza di accento bolognese marcato e motti romaneschi è eccessivamente forzata, innaturale). I tre giovani interpreti principali sono poi Irene Vetere, Giovanni Toscano e Mauro Lamantia: tutti ben in parte; altri ruoli sono riservati quindi a Paolo Sassanelli, Simona Marchini, Ornella Muti, Ferruccio Soleri, Tea Falco, Giulio Scarpati, Eliana Miglio e Giulio Berruti. Musiche ‘piovanesche’ di Carlo Virzì, fotografia di Vladan Radovic: tutto contribuisce a mantenere alto il livello di pathos del lavoro, raramente banale e più spesso illuminante – si consideri in tal senso la scena di Antonino a colloquio con Zappellini, che a modo suo gli spiega l’importanza di guardare fuori dalla finestra: fondamentale; da qui nascono però legittime perplessità sul significato di quel finale teso a ricalcare quanto già suggerito in precedenza, proprio in tale scena. Occasioni perdute, follia giovanile, esperienze determinanti come gli incontri con ‘i grandi vecchi’: dietro al paravento dei mondiali del 1990 si staglia naturalmente l’ombra della vita vera, quella di un regista come Virzì, che nel 1990 aveva 26 anni e muoveva i primi passi a Cinecittà proprio come sceneggiatore. 8/10.

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