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L'isola dei cani

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su L'isola dei cani

di M Valdemar
8 stelle

 

locandina

L'isola dei cani (2018): locandina

 

 

Un gioioso abbaio ai Sognatori.
L'universo bidimensionale di Wes Anderson, come sempre florido e raffinato, geometricamente inappuntabile, (si) evolve scoprendosi mondo cavo.
Ibridando lingue (giapponese, inglese, “canese”), linguaggi e registri (anime, manga, favola, teatro No, distopia, grottesco), specie (uomini e animali), musiche (taiko e fiati), tempi, espressione grafica (stop-motion, illustrazione pittorica, disegno animato), mantenendo e anzi tonificando un'identità e un'idea (di cinema, di arte, di vita) inconfondibili: il caratteristico, immaginifico caleidoscopio di toni e tratti, di scenari e temi dell'autore di Fantastic Mr. Fox trova in Isle of Dogs una compiutezza di senso e un'armonia sublimi, necessari.
Sotto l'estetica carica, i cromatismi lussureggianti, le minuziose composizioni iconografiche, i vorticosi movimenti di macchina, le frequenze citazioniste, tutto. Un mondo che ne contiene un altro e altri ancora, attraverso un dialogo costante e reiterato con quelli “altri” (le traduzioni “in diretta”, gli schermi televisivi, le didascalie in doppia lingua), un collegamento tra storie remote che pure hanno linee comuni, una configurazione etica che sia approdo condivisibile, ponte, anziché sterminati cimiteri di muraglia.
Vive così di una rappresentazione fulgida e ideale, il film dell'Anderson romantico, ma con sottostrati consistenti e concreti di satira politica, allegoria sociale, calligrafia morale, recita fantastica, rassegna burlesca (impagabili, tra gli altri, il carlino Oracle e le sue “profezie” viste in tv; i “si dice in giro” della gang canina).

scena

L'isola dei cani (2018): scena

scena

L'isola dei cani (2018): scena

scena

L'isola dei cani (2018): scena

Un prodigioso film-meccanismo dall'architettura complessa, stratificata, di ingranaggi e automatismi sempre più stupefacenti che, a ogni nuova leva azionata o cornice svelata o scenografia emersa da riprese e tagli spettacolari, svela, non solo un'ingegnosità frutto anche di un lavoro monstre ma anche e soprattutto un'anima e un cuore pulsanti, una fede incrollabile.
Nell'arte della narrazione per immagini come in quella del cane per l'uomo. Nonostante le peggiori nefandezze, sciocchezze, cadute, incomprensioni, distanze. Sì, c'è della retorica – nel racconto, nei contenuti (il tema ecologico-ambientale, l'accettazione nel gruppo, la speranza nel futuro), nei toni, nei profili individuali e collettivi (la petulante Tracy Walker, americana in trasferta giapponese con animo da salvatrice delle patrie, è una sagoma debole che può essere tacciato di veduta “imperialista”) – ma l'equilibrio è tale da costituirne un ulteriore elemento del disegno generale.
Sul (e nel) quale, sospesi come in un'incisione di Katsushika Hokusai, vivono i personaggi di Isle of Dogs: magnificamente concepiti e cesellati, splendidamente definiti (il cast impressionante di voci di star conferisce natura familiare e preziosa), fluttuanti in una dimensione figurativa che è corpo e sostanza, materia visibile ed esperienza tangibile.
Impossibile non adorare il “piccolo pilota” e il branco di “cani alfa”, le loro avventure nella selva oscura dell'isola di rifiuti, la figura idiotamente ottusa del sindaco Kobayashi e quella nera, disumana dell'altissimo Major Domo, le moine di Nutmeg (la voce è di Scarlett Johansson …) e la risolutezza di Spots (Liev Schreiber), le irresistibili sequenze slapstick e la irrefrenabile molla battutistica-dialogica-vocale, le finezze estetiche e i tasselli slapstick, i saliscendi emozionali e scenici, i movimenti della mdp e le inquadrature ricercate, lo spirito squisitamente analogico e le “nuvole” di fumo quando scoppia l'azzuffata.
Per adulti-bambini-robottini-suonatori di tamburi-animali(sti) e non: Isle of Dogs ulula ai folli chiedendo, al massimo, un biscottino.




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