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Amanti folli

Regia di Max Ophüls vedi scheda film

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La recensione su Amanti folli

di spopola
8 stelle

Una bellissima e già matura prova di regia che tratta con straordinaria precisione e un’esemplare leggerezza di tocco una materia ad alta potenzialità drammatica che sulla traccia di un dramma di Schnitzler ampiamente rimaneggiato, mette a nudo la vera faccia del bel mondo viennese dove la spensieratezza cede il passo alla tragedia.

Per Max Ophuls l’amatissimo poeta  Arthur Schnitzler, come era solito definirlo,  è stato sempre un imprescindibile punto di riferimento, come ben sappiamo. Era dunque forse inevitabile che già quasi agli esordi, attingesse da quella fonte l’ispirazione creativa per realizzare un’opera importante come Liebelei (che fu poi quella che – ancora giovanissimo - lo impose con prepotenza alla attenzione internazionale del pubblico e della critica).

Vero e proprio film-faro dell’autore, ci possiamo trovare già dentro i segni di una mano straordinaria  e di un altrettanto  inusuale “sguardo” (i sinuosi movimenti di macchina che diventeranno una delle caratteristiche costanti,  più singolari e riconoscitive del suo stile,  l’intrusione di ostacoli alla visione come diaframmi, tende, quinte e oggetti vari), oltre che  una sorta di anticipazione di tutto ciò che  farà grande il suo cinema, quelli che potremo cioè definire  i semi embrionali della sua poetica, tutti presenti in nuce ma già in magnifica evidenza: il tema della malinconia schubertiana; la frivolezza che apre la strada al dramma; le  struggenti ambientazioni  ricostruite in studio che ci restituiscono una  magica, brumosa e innevata Vienna totalmente “reinventata” e assai poco barocca;  il viaggio immaginario o semplicemente “sognato” (sui vagoni di un treno o in una slitta); il primo emozionante ballo degli innamorati; lo spettacolo nello spettacolo (l’ouverture all’Opera  - splendido preludio al film e del quale forse anche Visconti ha poi tenuto conto come “riferimento iconografico”, per la scena alla Fenice in Senso).

Era il 1932 quando Ophuls riuscì a portare sullo schermo questo Liebelei, tratto da uno dei più significativi testi teatrali dello scrittore, rappresentato la prima volta al Burghtheater di Vienna (non senza scandalo) nel 1895 (ma dove rimase in cartellone per ben 15 anni consecutivi) e che aveva fortemente attratto il regista già da qualche tempo: la Germania navigava verso una sempre più esplicita euforia hitleriana – ebbe a dichiarare Ophuls in una intervista - Il soggetto mi aveva affascinato fin dalla prima lettura. Ci vidi subito l’occasione di fare un film con attori giovani, spontanei, non ancora incancreniti dal culto del divo. Imporre però  questa idea di gioventù a un produttore che voleva solo vecchie glorie alla vigilia della pensione, fu un’impresa tutt’altro che facile  e mi costò un’immane fatica. Non so proprio come feci a spuntarla: quattro ruoli principali affidati a quattro debuttanti e solo quelli secondari affidati ad attori celebratissimi, tutto questo per amore di Schinitzler, principe dei poeti e figlio prediletto delle Muse! Da non credere! Anche il compositore, lo scenografo  e la costumista (una signorina che andava ancora al liceo) erano dei debuttati o quasi.

Ophuls  con questa sua bellissima e già matura regia, mette a  nudo con straordinaria precisione, il bel mondo viennese, dove la spensieratezza  cede il passo alla tragedia, e il senso dell’onore nasconde dietro la facciata perbenista, una inconfessabile  crudeltà . Ne fa un dramma elegante e feroce che oltrepassa i limiti di un’abile descrizione delle atmosfere e dei fronzoli della Belle Epoque che fece scrivere al Kracauer: C’è in questo film  delizioso un forte sentimento anti-militarista, e un appassionante contrasto fra la tenerezza dell’amore e il rigore  del codice d’onore militare, e dove il pessimismo e l’inquietudine schnitzleriani  sono trattati  con un’esemplare leggerezza di tocco e una raffinatezza che hanno fatto scuola.

Rispetto alla piece originale comunque Ophuls apportò sostanziali variazioni, adottando un finale molto più cupo, “definitivo” e tragico (che non anticipo naturalmente),  concentrando la sua attenzione soprattutto sui rapporti amorosi dei personaggi (l’amore-passione di Christine per Fritz Lobheimer e il flirt occasionale tra Mitzi e il dongiovannesco Theodor Kaiser), lasciando volutamente un pò più in ombra il contesto sociale (il contrasto tra cinismo aristocratico e autenticità popolare ben sottolineato nel dramma) e “alterando” in forma un po’ più poetica la presenza della città, una Vienna osmoticamente collegata in Schinitzler ai personaggi che in essa vivono e agiscono, fulcro centrale dell’azione che sembra a volte assorbire e inglobare ogni altra cosa (Giuseppe Farese)  che diventa invece nel film con quel suo essere una  scenografia indefinita, realisticamente credibile ma meno vivida e vivace della realtà,  qualcosa di più sfumato e sognante che acquista per questo, come accadrà del resto e forse ancora di più  nel successivo Lettera a una sconosciuta, capolavoro assoluto del periodo americano del regista, maggiore rilevanza empatica di struggente presa emotiva.

I mutamenti di prospettiva rispetto al dramma, comporteranno ovviamente anche altre sostanziali innovazioni: mentre il testo schnitzleriano era leggibile principalmente attraverso l’ottica delle due ragazze, nel film invece il punto di vista diventa quello dei due ufficiali: di qui l’accentuazione e l’importanza maggiore attribuita proprio alla vita militare  anche per ragioni prettamente spettacolari e per le differenti possibilità offerte dallo schermo rispetto alle assi del palcoscenico (due sequenze di vita in caserma, le manovre militari). Variazioni non fondamentali, ma tali da rendere la pellicola completamente autonoma (sia pure nel totale rispetto delle tematiche di fondo della fonte) e farne un  oggetto assolutamente “cinematografico” (lontanissimo cioè da ogni ipotesi  o “rischio” di  teatro filmato) grazie anche all’inserimento di ben dieci nuovi episodi che ne movimentano maggiormente la fisionomia: lo spettacolare preludio all’opera a cui ho già accennato sopra, con le ragazze che dal loggione fanno inavvertitamente cadere il binocolo che finisce sul braccio di uno dei due ufficiali; la doppia visita di Fritz in casa del barone prima come furtivo amante e poi come inviato da tenere d’occhio; la passeggiata notturna delle due coppie per le strade della città; la magica escursione-sogno di Chiestine e Fritz sulla slitta; le manovre militari; la visita d’addio di Fritz in casa di Christina; la prova canora di quest’ultima; la drammatica visita di Theodor (che deciderà poi di lasciare l’esercito)  a un alto ufficiale per tentare di scongiurare il duello; l’appassionata, sconvolgente scena conclusiva.

Tutto questo, contribuisce a rendere più efficace e ad impreziosire il già ammaliante percorso del testo teatrale  che – come ho già detto –  le straordinarie capacità introspettive del regista, trasformeranno in un’opera di eccezionale potenza, e di inconfondibile tocco autoriale.

Al successo di questo intenso, piccolo capolavoro, vero e proprio “miracolo” di semplicità e classica perfezione, dove è semmai la componente “barocca” di Ophuls a rimanere  una volta tanto più sfumata sullo sfondo, concorrono comunque anche altre felici circostanze:  la congenialità del soggetto con l’anima del regista che sembra qui essere una vera e propria “affinità elettiva” con quel suo mettere in primo piano la fragilità transitoria  dei sogni d’amore: “Non parlatemi di eternità – dice Fritz a Christine -  ci sono solo degli attimi  che diffondono un profumo di eternità (sceneggiatura di  Curt Alexander, Hans Wilheim e Max Ophuls alla quale collaborò anche Felix Salter, l’autore di Bambi); la musica così  appropriata e a suo modo intensamente “viennese” di Théo Mackeeben che arrangia arie di Brahms, Beethoven  (il primo movimento della quinta sinfonia) e Mozart (in particolare il ratto dal serraglio) che supporta e  completa le immagini come meglio non sarebbe possibile fare;i grigi avvolgenti della chiaroscurata fotografia di Franz Planer, e soprattutto quella felicissima intuizione di aver selezionato un giovanissimo quartetto di interpreti tutti bravissimi, fra i quali si segnala una intensa Magda Schineider, futura madre della più celebre Romy (fino a quel momento solo una piccola vedette di operette,  per la prima volta impegnata in un ruolo drammatico che realizza in perfetta sintonia di intenti e di aderenza anche fisica).

Ne esce fuori insomma,  un’opera di eccezionale freschezza che sarà poi particolarmente apprezzata dai registi della nouvelle vague, e dove la coincidenza fra il tema, l’aria del tempo (le inquietudini europee), la felicità espressiva e lo stile, è perfetta e inappuntabile.

 

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