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The Plague

Regia di Alberto Rodriguez vedi scheda film

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La recensione su The Plague

di scapigliato
10 stelle

Per chi scrive, ispanofilo ed ispanista, tre sono i momenti chiave della storia spagnola che ne hanno determinato l’identità nazionale: la Reconquista (722-1492), il Siglo de Oro (XIV-XVI) e la Guerra Civil con i successivi quarant’anni di dittatura franchista (1936-1976). La peste è una serie ambientata proprio durante le fasi finali del Siglo de Oro, durante una delle prime epidemie di peste bubbonica che attanagliarono Sevilla decimandone la popolazione – la più grave fu quella del 1649. Una serie quindi, che non poteva che dialogare con il presente per il forte valore identitario di quell’epoca. Di conseguenza, alla guida di una serie di tali ambizioni storiche, sociali e politiche non poteva che esserci Alberto Rodríguez che, insieme a Fernando León de Aranoa, è il regista spagnolo più politico del nuovo secolo e inoltre, a differenza per esempio dello stesso Aranoa, uno dei pochi capace di fare un film di alto contenuto attraverso il genere.

Esordisce proprio allo scoccare del nuovo millennio con un corto Bancos (2000) e a seguire El factor Pilgrim (2000), suo primo lungo. Continua con una commedia di taglio politico, El traje (2002) e poi finalmente sale agli onori del mondo cinematografico patrio con 7 vírgenes (2005), sua prima candidatura ai Goya, After (2009), altra candidatura, e poi a seguire titoli iconici di questi primi vent’anni del XXI secolo acclamati da critica e pubblico: Grupo 7 (2012), La isla mínima (2014), che gli vale il Goya al Miglior Regista e Miglior Sceneggiatura, e El hombre de las mil caras (2016). La peste si inserisce di diritto in quest’ultima fase del regista sevillano perché, oltre alla qualità del prodotto, è un’opera di ambientazione storica.

Rodríguez, abituato a trattare un passato molto recente, quello degli anni ottanta e novanta, trova nel XVI secolo sevillano un nuovo interlocutore con cui far dialogare il presente. Un interlocutore speciale perché rappresentante di un momento storico altamente simbolico per l’identità spagnola. La Sevilla del 1500 era la porta d’ingresso europea delle navi che arrivavano dalle Americhe e che trasportavano quantità ingenti di oro e argento, oltre a prodotti tipici del Nuovo Mondo, ricchezze però che non si fermavano in città, se non a pochi facoltosi, come il personaggio di Paco León, rappresentante di questa nuova classe di mercanti arricchitisi con affari spregiudicati, ma che venivano impiegate per guerre e cause inutili, come il sostegno all’inquisizione. Non erano ricchezze utilizzate per investire nel futuro o per aiutare il popolo che soffriva la fame, l’indigenza e l’epidemia pestifera. Questo aspetto, oltre ad essere un ottimo spunto narrativo è anche una delle assi tematiche che relazionano il XVI secolo al presente.

Una Sevilla corrotta, ambigua e piena di contrasti, dalla minoranza imprenditoriale circondata di oro e di ricchezze alla maggioranza dei cittadini sprofondanti nella povertà e nella miseria sia economica che morale, controllati spietatamente dall’istituto inquisitorio che esercitava un potere satanico sulle menti di un popolo disgraziato e incolto che si rifugiava regolarmente nella superstizione. Una popolazione condannata a vivere tra gli stessi ratti che appestavano le loro case, tra montagne di cadaveri ammucchiati ad ogni angolo, in strade gremite di ladri, assassini, prostitute e bambini affamati, educati fin da piccoli al furto e al delitto, i famosi pícaros di tanta letteratura spagnola dell’epoca. La crudeltà di questo contrasto illumina nuovamente il presente, dove la classe dirigente e politica, costantemente corrotta, approfitta dei momenti di crisi e sconforto generale per aumentare il proprio potere, la propria incolumità, la propria influenza, esacerbando così la distanza sociale con il popolo che, invece di ribellarsi, preferisce lanciarsi in guerre intestine, accusando ebrei, neri o stranieri in generali, poveri e accattoni, malati e appestati, di essere la causa principale dei mali della società.

Corruzione, povertà, malattia e disuguaglianza economica e sociale, crisi migratorie, diversità etnica e oppressione razziale, violenze e abusi sessuali, prostituzione e pedofilia organizzata, sfruttamento minorile e persecuzione religiosa, sono temi che possono essere ben trattati anche in pellicole che raccontano la Spagna, l’Italia, l’America e l’Europa di oggi. Con lo sguardo acuto e magistrale di Rodríguez, la Sevilla del 1500 funziona da specchio deformato per rivedere la società attuale in tutti i suoi orrori. E non solo, anche per celebrare la vena ribelle che strisciava nel popolo, il suo desiderio di affrancarsi dal potere imperante attraverso slanci individuali e razionali, nonostante la presenza soffocante dell’inquisizione. Trovano infatti posto tra gli elementi narrativi la Bibbia proibita di Casiodoro de Reina convertito al protestantesimo, oppure l’alfabetizzazione del giovane pícaro, attraverso le lettere mobili di una macchina tipografica, oppure gli usi sessuali dell’epoca che prevedevano la sodomia clandestina o l’utilizzo di consolatori per l’autoerotismo. Per raggiungere questa vetta estetica di realismo e per trattare con efficacia un fine discorso politico attuale, entra in gioco tutta la capacità tecnica della produzione.

I movimenti di macchina, la messa in scena, i costumi, gli oggetti, gli ambienti, la fotografia e l’ottimo lavoro degli attori segnano l’inizio di un nuovo modello di produzione della serialità spagnola. Mentre La casa de papel (Campos/Neira, 2017-in corso) pecca ancora di lungaggini melodrammatiche puramente riempitive perché nata come fiction per una rete generalista, Antena 3, e ovviamente, girata per lo più in interni – da sempre il “marchio” in negativo delle produzioni televisive - La peste, che abbonda di esterni, sull’onda del successo critico di La zona (Sánchez-Cabezudo, 2017), pianifica una rivoluzione estetica, tematica, linguistica e produttiva utilizzando i codici espressivi del cinema più nobile.

La perizia e la cura dei dettagli con cui viene ricreato anche l’angolo più buio di Sevilla, sono gli indizi più emblematici alla base del grande lavoro produttivo con cui è stata dapprima ideata e poi prodotta la serie. Il risultato è un’immersione visiva, quasi sensoriale, nella realtà storica raccontata. Oltre alla messa in scena naturalistica, è la fotografia il mezzo attraverso cui la realtà sevillana si palesa agli occhi dello spettatore. Il putrido e il pestilenziale, simboleggiati dalla massiccia presenza di fango, terra, cadaveri impilati e mucchi di spazzatura e sterco ovunque, appestano l’immagine grazie all’utilizzo di colori terrici, dai toni ocra, così come i colori sgargianti e vitali adornano gli abiti e le stanze dei ricchi signori. La fotografia ottiene il massimo di perfezione cinematografica nella rappresentazione dei luoghi bui, oscuri o in penombra e nelle scene notturne, dove il grande lavoro della squadra tecnica è in grado di illuminare una stanza solo grazie all’utilizzo di vere candele, restituendo così la reale illuminazione dell’epoca. Questa atmosfera macabra, goticheggiante, “nera”, nella quale si sviluppano buona parte delle vicende, e che simboleggia il nero della peste, la sporcizia in cui vivevano le migliaia di cittadini appestati e non, gli abusi sessuali e sociali che si praticavano negli anfratti delle abitazioni fatiscenti e delle baracche, rivive come magma informe e palpitante nella fotografia a carico di Pau Esteve Birba e Andreu Adam Rubiralta.

La forte estetica naturalista de La peste permette così allo spettatore, non solo di immergersi sensibilmente nella Sevilla di fine Cinquecento, ma di essere totalmente avvolto da suoni e financo dagli odori dell’epoca, questi ultimi, ovviamente, attraverso l’ausilio di un’iconografia precisa e satura di elementi realistici e operanti la storicità, dedotta dalla letteratura dell’epoca di cui risuonano opere come Rinconete y Cortadillo e El celoso extremeño di Miguel de Cervantes (1613) e soprattutto il Lazarillo de Tormes (1554), prima rappresentazione letteraria del pícaro, qui ricreato perfettamente da Sergio Castellanos, il giovane protagonista, e figura emblematica della cultura spagnola. Per contro, a parte qualche nome marginale, non appaiono nomi illustri del Siglo de Oro, come succede per esempio in El capitán Alatriste (Arturo Pérez-Reverte, Alfaguara, Madrid, 1996) in cui appaiono Francisco de Quevedo, Lope de Vega, Diego Velázquez, il Conde-Duque de Olivares e Felipe IV, ma il racconto è tutto appannaggio dei pícaros, dei fuggiaschi, come il protagonista interpretato con superba disillusione da Pablo Molinero, incarnazione del famoso desengaño barocco, degli appestati, delle comunità di africani tanto quando dai nobili ricchi e affaccendati, e anche da un’eroina femminista, a cui dà corpo Patricia López Arnaiz, che lotta per eguagliare gli uomini nei ruoli cardine della società e che dipinge apprezzati quadri sotto pseudonimo maschile.

La serie firmata da Alberto Rodríguez però, è molto di più che una ricostruzione storica e fedele al minimo dettaglio come I Medici (Spotniz/Meyer, 2016-2018), puro sfoggio estetico senza sostanza e colmo di errori, inesattezze e anacronismi. La peste, per esempio, è dotata anche di una trama thrilling che resta sullo sfondo e che agisce come propulsore per la trama, perché in fin dei conti, ciò di cui Rodríguez vuole parlare è ben altro. Così, i delitti che fanno tremare i vertici del clero sevillano, più preoccupato dell’ondata protestante che dei veri mali che affliggono la società – ulteriore collegamento all’attualità e alla colpevolizzazione di Satana per ogni male ideato e perpetrato dall’uomo – sono un mero espediente narrativo. Rodríguez invece, preferisce utilizzare la peste come simbolo di ignoranza e di superstizione, un male virale alla base dell’incivilimento della società, causa principale della sua povertà, schiavitù, rassegnazione e umiliazione. Uno dei personaggi illuminati della serie, il realmente esistito medico e botanico umanista Nicolás Monardes, avverte «L’ignoranza è la peste. Questo è ciò che ucciderà l’uomo». Da qui, non è difficile intuire come la peste sia la perfetta metafora della corruzione umana che infetta a poco a poco ogni istituzione, divorando famelica le vite dei più poveri e sprovveduti. Emblematica la sequenza inquietante del rogo inquisitorio. Non solo per le parole dell’inquisitore generale Celso de Guevara, interpretato dall’ottimo caratterista Manolo Solo, ma per la crudeltà della scena stessa, del rogo e delle sue vittime. Una sequenza raccapricciante e urtante che segna nuovamente la storia dell’immagine narrativa.

Inoltre la serie segna uno scarto con i film e le fiction di ambientazione storica a cui era abituata la Spagna. La peste, dotando i personaggi di un idioletto sì moderno, però senza modismi attuali né arcaismi stucchevoli con cui spesso si tenta maldestramente di scimmiottare lingue di epoche passate, evita il monumentalismo retorico di molti prodotti che non approfittano del fatto storico per riflettere, ma lo usano solo come telone di fondo per avventure o drammi fini a se stessi. Questa scelta autoriale è un ottimo antidoto al revisionismo neocoloniale con cui un certo cinema spagnolo sta ipotizzando una strana nostalgia post-imperiale, il  che in sé non è un dato negativo perché l’importante è interrogare il passato e lasciar rispondere al presente, ma potrebbe restare un’operazione sterile dalle conseguenze opposte. Palmeras en la nieve (Fernando Gonzez Molina, 2015), 1988: Los últimos de Filipinas (Salvador Calvo, 2016) e Conquistadores: Adventum (Díaz Espada/del Santo, 2017) possono essere film o fiction di intrattenimento, ben diretti e interpretati, ma che mancano di uno sguardo autoriale e di un apporto estetico che ne sia anche la poetica. La peste invece, riesce là dove tutte le rivisitazioni storiche del cinema spagnolo su temi coloniali e post-imperialisti non sono riusciti.

Con l’utilizzo di questo crudo realismo, l’estetica de La peste si fa contenuto e la poetica di Rodríguez trova nuovamente un terreno fertile per solleticare l’etica dello spettatore intrattenendolo con una storia avvincente che nella sua modulazione e nel linguaggio utilizzato aiuta ad abbattere i limiti ormai obsoleti tra cinema e televisione, come dimostrano altre due serie spagnole coeve, Gigantes (Urbizo/Barros, 2018-in corso), sempre di Movistar+, e Fariña (Campos/Neira, 2018), di Antena 3.

La peste è difatti, al momento della sua uscita, il miglior successo di Movistar+ battendo di larghissima misura l’audience della settima stagione di Game of Thrones (Benioff/Weiss, 2011-in corso) con una media di uno spettatore su cinque ad averla vista interamente in massimo quattro giorni. Con 10 milioni d budget, la serie ha procurato lavoro a qualcosa come 400 professionisti del settore più qualcosa come 2.000 figuranti. Può contare con Sky Vision per la sua distribuzione internazionale, forte di una storia che supera i confini spaziotemporali della narrazione trattando temi universali validi a ogni latitudine.

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