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Lazzaro felice

Regia di Alice Rohrwacher vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Lazzaro felice

di mck
8 stelle

“Lazzaro Felice”, alla fine, torn'a coincidere, spazio-temporalmente, con la nostra Zona del Disastro, col nostro Presente: e non possiamo farci altro che niente.

 

Martufello! Muoviti, cammina, corri!

Italia etrusca, Tuscia romana, ovvero: tutte le strade portano a Viterbo.  
1. Troppa Grazia di Gianni Zanasi (Est. '17 → Prim. '18) - Qualcosa che non c'è.
2. Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher (Est. '17 → Prim. '18) - La leggenda del santo lavoratore.
3. Il Primo Re di Matteo Rovere (Aut. '17 → Inv. '19) - Pugna, frate meo!     

 


Così come all'alba degli anni '90 [“Dreams (Will Come Alive)” dei 2 Brothers on the 4th Floor] per i contadini dell'Inviolata (un “the Village” coatto di un M. Night Shyamalan de/post-genere) il tempo s’è fermato agli anni '50, ecco che per Lazzaro, ritrovatosi dal purgatoriale paradiso (c'è stata una grande moria dei capponi, e si rimane a debito sempiterno: vitto, alloggio, sudore e fatica, ché la terra è bassa) rurale della mezzadria (che dagli anni '60 agli '80 subì una normazione di legge che la portò alla progressiva dismissione e definitiva scomparsa) al purgatorio infernale di una caliginosa Milano/Torino con estese periferie romanesche (il sommovimento tellurico - il corpo di Lazzaro è lo strumento, la sua mente un lenimento, ed entrambi sono inscindibili dalle sue azioni - coinvolge tanto lo spaziale quanto il tempo: il cronosisma è anche un wormhole), il quarto di secolo “trascorso” non incide sulla sua figura, in questa classicheggiant'e finto-ucronica opera di fantascienza socio-etnologica che si trasforma al giro di boa in un affresco documentario d'iperrealismo magico.
Alice Rohrwacher si conferma uno dei più validi e importanti talenti del cinema di civiltà europea, clima mediterraneo, idioma italico, paesaggio appenninico e financ’or padan’odierno.

 

 
Terzo lungometraggio della regista e sceneggiatrice (che ha sempre scritto da sola le opere da lei dirette), “Lazzaro Felice” è interpretato (e tutti gli attori sono molto ben utilizzati) da esordienti - Adriano Tardiolo (Lazzaro giovane e “adulto”), Luca Chikovani (Tancredi giovane), Carlo Massimino (Pippi adulto), Giulia Caccavello (Teresa giovane), eccetera eccetera… -, semiesordienti - Agnese Graziani (Antonia bambina), intelligentemente ripescata da “le Meraviglie” [e il vivaio attoriale - per quanto estemporaneo, ma robusto - piantumato da Alice Rohrwacher in 3 film è una delle cose più viv(id)e del cinema italiano contemporaneo] e professionisti: Alba Rohrwacher (Antonia adulta), la sorella, braccio armato, estensione pseudopodica dello sguardo del regista; Nicoletta Braschi (Alfonsina de Luna), che torna qui dopo l’ultima grande prova al cinema out-of-consorte, “Mobbing (Mi Piace Lavorare)”, mentre nel frattempo ha provveduto col portare a teatro “Happy Days” di Samuel Beckett, subentrando alle performance di, tra le altre, Giulia Lazzarini e Anna Marchesini; e Sergi López (Ultimo), Tommaso Ragno (Tancredi adulto), Natalino Balasso (Nicola adulto), Antonio Salines (Antonio anziano), Elisabetta Rocchetti (Teresa adulta) e Daria Deflorian (carillon/mattone).   

 


E fotografato dalla sodale Hélène Louvart – MdP Arriflex, lenti Zeiss e pellicola Kodak Super 16mm (rapporto d'aspetto: 1.66:1), per poi ovviamente/normalmente essere trasferito s'un supporto informatico in una cartella D(igital) C(inama) P(ackage), con un paio di momenti herzoghiani dall'alto ("Fata Morgana", "Lektionen in Finsternis") –, montato da Nelly Quettier (Leos Carax, Claire Denis) e musicato da Piero Crucitti [con Verdi, Bellini e soprattutto Bach, che ritorna con l’Erbarm dich mein, o Herre Gott, op. BWV 721 (da non confondersi con l’aria Erbarme dich, Mein Gott della Passione secondo Matteo) eseguito all’organo sul finale da Karol Massakowsky]. Prodotto, come al solito, da Carlo Cresto-Dina (TempestaFilm) e RaiCinema (01 Distribution).   

 


Con questa Leggenda del Santo Lavoratore, “Lazzaro Felice”, l'eredità è sancita: Alice Rohrwacher (dopo “Corpo Celeste” e “le Meraviglie”), allo stato dell'arte, raccoglie e pre(te)nde il testimone che Ermanno Olmi (da “l'Albero degli Zoccoli” a “il Posto”, da “il Segreto del Bosco Vecchio” a “CentoChiodi”) le porge e consegna con gesto scolastico e fraterno/paterno e financo filiale.
Inoltre e al contempo, “Lazzaro Felice” altro non è - ed è tanto - che la crasi tra “NoveCento” e “Miracolo a Milano”: li trasla, tramuta, contiene ed esprime cronologicamente, proprio come “Miracolo a Milano”, 1951, è il seguito diretto girato in anticipo di “NoveCento”, 1976. Su tutto, alto, oltre le nuvole, tra la Tuscia (là dove Toscana, Umbria e Lazio si guardano a vicenda) e la Marana, oltre i Murazzi e i Navigli, al di là di un guado a valle o a monte d'un ponte crollato e accanto alla massicciata di una ferrovia, lo sguardo presente, eterno, agro-metropolitano di Pier Paolo Pasolini.   

 


Sopravvissuto all'ultimo lacerto di mezzadria e nobiltà, allo spopolamento, all'inurbazione, ma non ai contocorrentisti (che di mezzadri e classe dirigente ne son la mescolanza: la borghesia), Lazzaro Felice, due nomi propri, due (quasi) aggettivi qualificativi e due ossimori, finalmente, muovendo l'ultimo passo nella sede di un inganno un po' più vasto e organizzato di quello ordito da Madama la Marchesa, muore per la seconda volta, schiantando al suolo la carcassa che ha osato trasmigrare tra(n)suma(na)ndo, se pur per abbrivio inerziale, dai Campi Elisi e di detenzione di un eden concentrazionario di lavori forzati, a mezza via tra la servitù della gleba e il compenso a cottimo, sfornanti nicotinoidi e tabagisti, all'Orto fuor della prigione insaputa ma dentro (concluso/recluso) ad un altro Sistema, di cemento, coltivato a cicoria, tarassaco e parietaria.
Il tempo si è decontratto, è tornato a scorrere e a scandire le ore, i giorni, le fasi lunari, le stagioni e gli anni, le distanze sono tornate ad esser tali. La gente rimane la stessa. Buona e cattiva.   

 


Lazzaro Felice”, alla fine, torn'a coincidere, spazio-temporalmente, con la nostra Zona del Disastro, col nostro Presente: e non possiamo farci altro che niente.

 

* * * * ¼   

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