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Un uomo chiamato cavallo

Regia di Elliot Silverstein vedi scheda film

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La recensione su Un uomo chiamato cavallo

di maso
8 stelle

Western anticonformista tra i più rappresentativi del periodo d'oro di questo sottogenere che annovera poche pellicole ma tutte molto belle e più significative dei classiconi americani alla John Ford totalmente fuorvianti dal punto di vista storico e sociologico anche se bisogna ammettere che la descrizione dei pellerossa mostrata da Silverstein è una delle più brutali e selvagge mai viste al cinema, ovviamente emerge un codice etico e morale che mancava fino ad allora ma la spettacolare sequenza del Rito del sole che trasforma l'uomo in eletto e il trattamento riservato al protagonista ci fanno capire che gli indiani erano gente così a contatto con la natura da risultar quasi degli animali evoluti ma non di molto distatnti da quello stato.
Il contesto storico è perfetto per inserire il personaggio di Richard Harris impegnato in un vero e proprio tour de force fisico e recitativo visto che parte con le sembianze di un damerino viziato con il suo completo di pelle a frange ma si trasforma presto in un cavallo a pelo nudo, catturato, maltrattato, umiliato da quella gente che apparentemente ha molta meno educazione di lui ma saprà indirizzarlo in una vita molto più ricca a livello morale di quella che era stata per lui prima di diventare il cavallo da soma dell'anziana madre del capo tribù, Harris dimostra di essere un grande attore sotto ogni aspetto perchè il suo personaggio muta con l'incedere del film e la nostra affezione nei suoi confronti di pari passo con il suo riscatto e il raggiungimento della tanto agognata libertà.
Il film ha davvero pochi punti deboli, il più evidente è il personaggio del bianco che vive ormai da anni nella tribù Sioux delle mani gialle, è uno snodo della trama quasi obbligatorio per creare un tramite che possa scavalcare la barriera linguistica fra il protagonista e gli indiani un po come avviene in "Balla coi lupi" con il personaggio di Alzata con pugno, ha i suoi punti di forza invece in tante sequenze che rimangono impresse perchè godono di una messa in scena impeccabile: quella già citata e ardua da osservare del rito di iniziazione che fa arricciare le carni sul petto anche grazie al pathos creato dall'oscurità del teepee, il conseguente sogno d'amore di Shukauakan, la descrizione brutale del villaggio indiano che come giustamente viene fatto notare non poteva apparire come il Club Valtour ma più come un letamaio, i maltrattamenti subiti dal protagonista all'inizio che si contrappongono ben presto con il suo ritorno dalla battuta di caccia al grido "Libertà!"

Su Richard Harris

Il suo ruolo più famoso? Forse si e bisogna ammettere che non era facile rendere così memorabile un personaggio che passa da essere un damerino viziato a cavallo da soma a capo tribù nell'arco di due ore, grandissima prova.

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