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La casa delle bambole - Ghostland

Regia di Pascal Laugier vedi scheda film

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La recensione su La casa delle bambole - Ghostland

di scapigliato
9 stelle

Se l’esordio con Saint Ange (2004) era lezioso e tedioso, pur rispettando per lo meno l’efficacia dell’iconografia di riferimento, e se Martyrs (2008), acclamato come l’horror più estremo e disturbante del secolo, era saturo di violenza e sangue, così sporcato da un’estetica tanto estrema come parossistica da annullarne la carica sovversiva, Incident in a Ghostland è invece un’opera matura, autoriale, dove Pascal Laugier fa un sapiente uso dei codici del terrore dei suoi e nostri maestri di genere per rielaborare un incubo fortemente carnale, ma strutturato sulla percezione fantastica del reale e sull’espressionismo dell’estetica, intervenendo radicalmente tanto sul profilmico come sul filmico. L’ipertrofia del suo titolo più celebre, Martyrs, qui è ridotta e trasformata. La violenza esasperata è presente dall’inizio del film fino alla fine, tant’è che l’incubo inizia improvviso fin dal sedicesimo minuto del metraggio, ma sa cedere il passo alle atmosfere voluttuose ed inquietanti dell’horror più classico, riscontrando nello spettatore il piacere di una visione cosmica, senza tempo. Inoltre, la violenza, da puro sadismo incontrollato e primitivo viene tradotta in pura efferatezza umana.

Al centro del racconto orrorifico di Laugier ci sono sempre i corpi. Corpi martoriati, violati, umiliati, feriti, mutilati, abbruttiti, deformati, cosificati e animalizzati. In  questo preciso aspetto della sua poetica, il regista francese continua ad essere efficace e sa rappresentare il “martirio” interiore attraverso la segnalità esteriore puntando il dito soprattutto sulla fisiologia del corpo violato, riempiendo la scena della sua carnalità degradata.

Un po’ The Texas Chain Saw Massacre (Tobe Hooper, 1974), un po’ The Last House on the Left (Wes Craven, 1972) e anche un bel po’ Profondo Rosso (Dario Argento, 1975), Laugier sa creare un mondo, la casa “sperduta nel parco”, qui una non precisata terra fantasma senza coordinate spaziali precise, che è crogiolo di un’iconografia sana del terrore. Valanghe di bambole sono parse e ammucchiate per tutta la spettrale magione, la cui architettura labirintica e oscura è già un’intenzione autoriale e simbolica del groviglio mentale delle protagoniste – e ricorda l’idea di base di Wes Craven in The People Under the Stairs (1991) – nonché il labirinto uterino in cui è ancora simbolicamente rinchiusa la protagonista del film, la bellissima e candida Crystal Reed, già eroina dolente delle prime stagioni di Teen Wolf (Jeff Davis, 2011-2016). Bambole a cui si aggiungono maschere, animali imbalsamati, foto d’epoca, ferraglia e ninnoli vari, di cui è così saturo l’ambiente scenico che sembrano essi stessi imuri, le travi e i pilastri su cui si regge l’intera casa, una vera casa del terrore, il cui scantinato funge da inferno e mattatoio, mentre ai piani superiori rivive la concrezione dell’incubo umano deviato e patologico.

Se Laugier, sul finire della pellicola, avesse evitato l’ultimo degli sfasamenti narrativi – tanti sono infatti i passaggi tra sogno e veglia, incubo e realtà, che aiutando a confondere lo spettatore e ad attivare i dispositivi fantastici interni ad una narrazione fisica e prettamente carnale – e avesse proseguito quell’ultima sequenza – la fuga nel bosco, l’incontro con i due poliziotti nel campo e il nuovo sequestro da parte della “strega” e dell’ “orco” – sui codici dell’horror rurale in cui si era felicemente inserito, e se avesse osato di più nella rappresentazione erotica o finanche pornografica della carnalità, sarebbe stato un capolavoro. Ad oggi, uno dei migliori horror del nuovo secolo.

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