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Il mercante delle quattro stagioni

Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film

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La recensione su Il mercante delle quattro stagioni

di PompiereFI
8 stelle

Hans Epp, dopo essere rientrato in Germania dalla Legione Straniera dove si trovava, si sposa con la piacente e arrogante Irm. Lui è emarginato dalla sua famiglia, prettamente borghese, ma è una persona dabbene in cerca solo di fiducia e serenità. Prova così a intraprendere il mestiere di fruttivendolo ambulante. Si troverà però a bere sempre di più cercando, in questo modo, di non badare ai tormenti inflittigli dalla moglie e dalla madre…


Rainer Werner Fassbinder, già attivo autore fin dal 1969 e fondatore della compagnia di distribuzione indipendente Filmverlag der Autoren, formò nel 1971 la casa di produzione Tango Film con la quale realizzò “Il mercante delle quattro stagioni”, la sua prima opera di riordinamento ideologico fortemente tendente al melodramma. Il titolo del film non ci racconta solo del lavoro svolto da Hans ma ha pure una connotazione letterale che riflette esattamente il carattere del protagonista. Il mercante, interpretato dall’attore Hirschmuller, è un uomo triste e sottomesso, inutile secondo i valori borghesi dai quali discende e, per questo, adatto a tutte le stagioni.

Hans recita per gran parte del film con indosso delle bellissime e sgargianti camicie a quadretti, simbolo fin troppo esplicito della sua beatitudine e felicità per il tipo di lavoro svolto, fino a quando non comincerà a sentirsi inutile e da lì i colori dei suoi abiti vireranno sul grigio (esistenziale).

La sua figura è adatta infatti a diventare facilmente preda delle due donne più importanti dalle quali è circondato: la moglie e la madre. Da loro non riesce a farsi gradire ne’ considerare e a loro si abbandona nel tentativo di salvare almeno il matrimonio, segno per lui di stabilità emotiva.

La madre di Hans non si è mai chiesta cosa avrebbe fatto piacere al figlio, ha continuato sempre a imporgli tutto, impedendogli perfino di svolgere certi tipi di attività (come il meccanico, per esempio), vergognandosi di lui oltre ogni ragionevole misura e non credendolo capace di crescere e di cambiare; al ritorno del figlio dalla Legione Straniera la genitrice sentenzierà lapidaria: “Il mortaio puoi lavarlo quanto vuoi, sa sempre d’aglio!“.

Hans cercherà di sfuggire più volte a questi legami (mostrando accondiscendenza nei confronti di una prostituta, cercando e trovando l’amore di altre donne per concedersi un po’ di trasgressione) ma si dimostrerà assolutamente inadeguato a svincolarsi; la sua non è mai un’evoluzione, è solo un perpetuo tentativo di aggiustamento della situazione. Egli non comprende la vera natura dei suoi sentimenti e non sa come muoversi per individuarli e farli fruttare appieno.

Anche gli amici che frequenta al bar non gli sono di nessun aiuto e, anzi, lo compiangono. Soltanto un anonimo confidente di passaggio (interpretato, grazie a un breve cameo, proprio dallo stesso Fassbinder) cercherà di metterlo in guardia da generici malintenzionati.

Ma sembra essere troppo tardi per il nostro perdente; egli, infatti, si zittisce e scivola verso l’apatia e l’autodistruzione. Il “suicidio” di Hans non assume i tratti epici e coraggiosi che lo riscatterebbero come eroe, rimane solo un atto privato e lontano da qualsiasi ingranaggio emozionale che lo possa collegare con uno degli altri personaggi. Le regole della vita sono ben altre e la sconfitta di Hans sarà, se possibile, ancora più dolorosa dopo che verrà seppellito (l’amico di guerra Harry deciderà di sposare la fresca vedova Irm).

Dal punto di vista della forma, Fassbinder dimostra di avere assorbito l’insegnamento di Douglas Sirk e di averlo convertito in un linguaggio del tutto personale; via le scene edulcorate e mitigate, il regista tedesco lascia spazio a dure controversie familiari e a confessioni che riguardano sempre questioni di vita o di morte

La recitazione (di frequente ebete e compassata) assume a volte toni grotteschi: quando la moglie telefona all’avvocato con l’intenzione di chiedere il divorzio, Hans strabuzza gli occhi in modo esagerato per evidenziare che sta per essere colto da malore. Nessuno dei familiari presenti pensa a chiamare i soccorsi, se non la sorella (una brillante Hanna Schygulla), ma ella stessa lo fa in modo compìto, senza nessuna inflessione nella voce che faccia pensare a una situazione di ansia o di preoccupazione. Anche la caduta a terra della sorella Anna, alla notizia dell’arruolamento di Hans, è oltremodo accentuata e il risultato va addirittura oltre i registri melodrammatici, assumendo toni quasi farseschi.

Fassbinder fa uso abbondante di primi piani in veloce avvicinamento (“abbandonando” gli altri attori in scena) come a voler creare un effetto solenne e pomposo: l’escamotage riesce a sottolineare in modo efficace i drammi esistenziali e viene unito all’uso della luce (che in questo film non è sempre sinonimo di armonia e unione) e alla scelta degli elementi scenografici i quali rendono bene l’idea della condizione sociale dei protagonisti.

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