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Il soldato americano

Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film

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La recensione su Il soldato americano

di EightAndHalf
7 stelle

Fassbinder è il cantore della natura parassitaria dei rapporti umani. Fin dai suoi esordi (e con Der Amerikanische Soldat non siamo tanto lontani dal suo primo cortometraggio, Il vagabondo, di giusto cinque anni prima) il regista tedesco evidenzia quel congelamento emotivo che sussiste fra gli esseri umani concretamente negli spazi sporchi e sciatti dei luoghi in cui i personaggi dei suoi film si muovono. L'interesse nei confronti della forma del corpo umano è evidente, e in questo senso funzionale proprio alla comprensione dei rapporti umani (e, se vogliamo, anche di come la stessa emotività sia caricata indissolubilmente del peso della corporeità). I suoi film, sia all'inizio che nel perdurare della sua filmografia, osservano quasi in impianti teatrali (ma sempre profondamente cinematografici, o nell'utilizzo del bianco e nero o nella mobilità della mdp) corpi che si muovono, si uniscono e si uccidono, scontri fisici che si fanno incarnazione di quel reciproco sfruttarsi che è insito nella civiltà, o forse nella stessa natura umana. L'amore, come avviene per il fratello del protagonista di Der Amerikanische Soldat, corrode l'anima, è più freddo della morte, e genera unicamente sofferenza. Il dialogo, seppur orientato alla trattazione di qualcosa di inoffensivo, si carica di un messaggio sempre fatalista, che rende i personaggi di Fassbinder reciproci annunziatori di morte, poiché non è un caso che il destino funereo del protagonista sia tracciato fin dall'inizio e riproposto da praticamente tutti i personaggi. Allo stesso tempo lui, che è un killer professionista, porta con sé un alone di fetida e gelida morte, che si orienta verso altri personaggi senza che siano troppo chiare le dinamiche, e che si  presenta ancora prima della presenza fisica di lui (un alone evocato dalla sua semplice attesa, come è evidente nella prima scena, quella incredibile della partita a carte).

 

 

E a rivelare la grandissima importanza dei corpi, si può anche sottolineare come Fassbinder sia in grado di tracciare i caratteri di un personaggio solo osservando l'espressione dell'attore: il fratello, la madre, l'amante prostituta, lo stesso protagonista, o anche i giocatori di carte, portano su di sé un triste destino già scritto, un'amara consapevolezza che non genera più passionalità, che porta all'inaridimento e all'immobilità più frustranti ma rassegnate ("si sa che in Germania non succede mai nulla"). Una freddezza, questa, messa comunque in contrasto col chiasso e la baraonda della guerra del Vietnam, da cui il protagonista ha appena fatto ritorno. Dunque, com'è suo solito, Fassbinder non lascia vie di scampo, e fa trionfare, a livello umano, il diritto del più forte, o se vogliamo, del più fortunato.

 

 

Infatti curiosissimo il personaggio della cameriera d'albergo, il più doloroso ed intenso dell'intero film, anche se colto in siparietti assolutamente incoerenti, sempre slegati dalla storia principale. Quando rimane delusa dell'indifferenza del protagonista, che pure l'ha costretta a baciarlo (senza che lei facesse tanti sforzi per trattenerlo), si siede mentre il protagonista stesso sta avendo un rapporto sessuale con una prostituta, e racconta di come "la fortuna non sia sempre una buona cosa", e di come, pur essendosi sposata dopo un colpo di fulmine, una sua amica abbia perso il marito dopo appena mezz'anno di vita appassionata. Per non parlare poi del momento in cui la stessa cameriera viene lasciata al telefono dal fidanzato, e in tutta risposta decide di suicidarsi di fronte al protagonista e alla prostituta, che la fissano nell'ombra neanche tanto attoniti: una scena che potrebbe destare risate, ma che ha il curiosissimo interesse di mostrare l'unico possibile destino della passione, e di come essa cada vittima di una dicotomia non trascendibile, o la morte o la schiavitù ("faccio quello che vuoi, sono la tua schiava").

 

 

Quando, poi, nel finale, il "soldato americano" incontra il suo triste destino, distratto dalla voce della madre (e da qui anche una riflessione sul ruolo della famiglia), Fassbinder (che pure è in scena) si lancia in un ralenti indimenticabile, in cui il fratello si lancia sul corpo del protagonista, e sembra avere con lui un fittizio rapporto intimo disperato e asfissiante, di fronte al quale gli altri difetti del film, tra cui qualche ingenuità di contenuti e un certo compiacimento della forma (proprio anche del Fabbricanti di gattini) crollano per essere definitivamente dimenticati.

 

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