Regia di Kevin Connolly vedi scheda film
Il boss e gli affari della famiglia. Una duplice famiglia: quella dei Gotti in senso stretto, un criminale efferato e senza scrupoli, padre-padrone carismatico che ama vestire con sgargiante eleganza, con moglie-chioccia e cinque, anzi quattro figli adoranti: tutti protesi alla difesa di una propria intimità anche quando qualcuno dei membri viene preso dal destino avverso (la morte di un figlio bambino investito accidentalmente da un'auto, il cui autista poi scomparirà in circostanze msi chiarite) e coesi per la salvaguardia del proprio futuro assieme. E la famiglia, più estesa, legata all'esercizio della professione, ovvero alla criminalità organizzata di stampo mafioso, associata ed identificata col clan dei Gambino, di cui Gotti diviene il primo ed illustre rappresentante e capostipite, trascorrendo un trentennio di notorietà tra loschi traffici, assassinii cruenti di rivali e nemici, e di tentativi - spesso andati a buon fine - di scagionarsi dalle pesanti gravi accuse che gli costarono alla fine 5 ergastoli e 50 usd di ammenda ("Vostro onore, passi per i 5 ergastoli, ma 50 dollari proprio non mi sento di pagarli", ironizza il boss, sornione, subito dopo la sentenza.
Fino ad una morte ancora piuttosto giovane, di cancro, in prigione, amareggiato dalla decisione del figlio maggiore di scendere a patti con la giustizia diventando un colaboratore.
Il biopic, addossato sulle spalle non proprio possenti di un Kevin Connolly senza smalto, che si dichiara ammiratore delle saghe malavitose e mafiose che hanno dato lustro, premi meritati ed "onore" (artistico, quindi sano, puro, meritatissimo) a maestri del cinema assoluti, spesso di origine italiana, come Coppola, Scorsese e De Palma, ma non fa nulla per dare un piglio ed un carattere personale ad un film che naufraga soffocato da un'aria pesante e irrespirabile.
Una pellicola che finisce per affliggere lo spettatore, costretto ed inerme tra i ranghi del clan di mafiosi, oppresso e sin annoiato, senza trovarsi mai a provare un men che minimo segno emotivo o di naturale attaccamento ad una escalation raccontata in modo fiacchissimo, neutro, senza nerbo, e senza stile alcuno.
E John Travolta, impegnato ad impersonare il personaggio del boss dai trentacinque ai sessant'anni, ce la mette tutta, per senso di responsabilità ed innata professionalità - forte di una ritrovata buona forma fisica e qualche probabile aiutino estetico, riusciti entrambi se rapportati ai suoi attuali 64 anni - e con sin troppo afflato e trasporto, per dare smalto e carattere ad un personaggio nella realtà colorito, spregevole e perverso, ma certo carismatico. L'attore adotta un approccio molto fisico, giocando sui makes up, anche gigioneggiando e ricorrendo a smorfie facciali sin eccessivamente marcate, se non quasi ridicole.
Non lo aiuta granché il resto del cast, fiacco pure lui anche quando può contare su nomi di classe ed esperienza come Pruitt Taylon Vince e Stacy Keach. Il lato curioso e "gossiparo" è in questo caso rappresentato dall'attrice Kelly Preston, che presta volto, corpo e dinamicità per interpretare la moglie del boss, mentre nella vita vera è la consorte di Travolta, ma con alle spalle una carriera piuttosto lunga da attrice, quasi sempre comprimaria, inesorabilmente molto offuscata dalla fama di un così celebre e famoso marito-star.
Ma il problema vero del film bolso, risiede nella sceneggiatura, troppo prolissa, protesa a organizzare la storia tutta sali-scendi del boss Gotti, vincolata sin troppo da flash-back che lo legano alla scelta intransigente e scandalosa del figlio maggiore, che rinnega gli orgogli paterni decidendo di patteggiare con la legge in cambio di una immunità che salvaguardi lui e la propria famiglia da uno scenario detentivo simile a quello del genitore. Tutto diventa pesante, prolisso, drammaturgicamente sciatto, meccanico e scontato come un prodotto stile televisivo girato con qualche mezzo e poche idee vincenti.
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