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Wolf. La belva è fuori

Regia di Mike Nichols vedi scheda film

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La recensione su Wolf. La belva è fuori

di scapigliato
8 stelle

Dopo il Diavolo e il Joker, Jack Nicholson non poteva che essere l’uomo lupo. L’attore più ferino di Hollywood veste i panni della mutazione archetipale più nota insieme al Jekyll/Hyde di Stevenson, che dopotutto ne è una variante, e s’incontra con l’attrice più felina del cinema contemporaneo: l’ex Catwoman Michelle Pfaiffer. I due fanno faville. Alla regia un amico di lunga data, Mike Nichols dietro cui si levano i nomi grossi del reparto tecnico: alla musica Ennio Morricone, alla fotografia Beppe Rotunno, e Rick Baker agli effetti speciali. Il film non è stato un successone, ma ingiustamente.

Dapprima abbiamo un incipit che premette subito l’approccio classico alla materia narrata. Non solo si parlerà di licantropi alla vecchia maniera – cosa che oggi coi vari Underwolrd e affini non si fa più – ma lo si farà con i codici estetici di un certo classicismo visivo che avrà la sua controparte moderna nei dialoghi. Battute pungenti e disquisizioni sociopolitiche non proprio affilatissime come spetterebbe al regista, sono comunque l’emblema dell’intenzione autoriale che sottostà al film. Esistono difatti tre itinerari narrativi per il mito del lupo mannaro, a loro volta declinabili in ulteriori forme. Un primo itinerario concepisce l’uomo lupo come agente del male. Come puro retaggio medioevale l’uomo lupo è il cane fidato di satana, o anche il servo dei vampiri, folkloristicamente più forti e potenti. Ecco quindi che il protagonista di tale narrazione –  ed è dal protagonista che sappiamo interpretare le direzioni discorsive di un testo sia filmico che letterario-teatrale – è colui che combatte il licantropo: è il buono che lotta il male. Questa è una delle due declinazioni possibili di questo primo itinerario. La seconda prevede il lupo mannaro sì come agente del male, ma cambiato di segno. In questo caso il mostro è un agente castratore, rappresentante della morale ferina e violenta delle istituzioni. Un secondo itinerario invece, usa l’uomo lupo per rappresentare il dolore esistenziale attraverso la famosa maledizione. In questo caso il protagonista sarà lo stesso licantropo. Consapevole della sua “implacabile condanna” vivrà il giorno nell’attesa del plenilunio, momento di orrore e di maledizione. All’interno di questo itinerario le soluzioni posso declinare a seconda del grado di accettazione del maledetto alla sua maledizione, da cui deriverebbero poi anche le intenzioni autoriali sul discorso esistenziale. L’ultimo itinerario, il terzo, assolve l’uomo lupo a rappresentate del bene, portandolo ad essere agente di istanze ribelli che lottano contro la morale e le consuetudini. La liberazione della propria istintività non è più vissuta né come maledizione né come segnale del maligno, bensì come vera e propria accettazione del proprio essere naturale e primitivo, lontano dagli inquinamenti delle strutture politiche e dei condizionamenti sociali. Il protagonista può così ben essere sia il mutaforma, sia un terzo che invece di dare la caccia all’uomo lupo lo aiuta e lo difende. Da queste varie possibilità funzionali del protagonista derivano quindi le intenzioni finali del prodotto.

In Wolf Jack Nicholson è un editore di gran fama a cui il proprio protetto gli ruba sia il lavoro che la moglie. Ferito nella sua virilità come nella sua utilità, oltre che da un grosso lupo nero nel Vermont, il Nicholson licantropico inizia il suo attacco alla torre d’avorio dei poteri forti. Il nostro uomo lupo non è quindi un’agente del male. La sua ferinità, evidente nelle scorribande notturne, non lo consegna alla sfera della cattiveria, bensì a quella della maledizione. Maledizione di cui vorrebbe liberarsi, crogiolando nel dubbio amletico di quale forma è meglio che lui sia: uomo o lupo? Mentre invece sarà il suo principale rivale, interpretato da James Spader, ad assumere il ruolo, una volta contagiato dal morso di Nicholson, del lupo mannaro davvero cattivo e sanguinario.

Il film di Mike Nicholson così abbraccia tutti gli itinerari più conosciuti dell’epos lupesco, prediligendo quello che punta sulla lacerazione, la scissione non voluta, la disperazione malefica dell’archetipo. Senza però togliere sviolinate all’aspetto ribelle dell’uomo lupo. Nicholson infatti, senza la sua licantropia acuta, non sarebbe saltato all’arrembaggio dei piani alti della sua azienda finendo con l’accettare la sconfitta. Nella mitica scena del bagno, il proverbiale gioco a chi piscia più lontano, ingentilimento della sfida metrica del pene, è reso letteralmente dalla marcatura del territorio fatta da Nicholson con le sue urine. L’ironia di fondo del film, comunque meno pregnante di altre pellicole, aiuta a dare al personaggio dell’uomo lupo di New York una spavalderia che indica senza mezzi termini dove pendano le simpatie ideologiche. L’uomo lupo come possibilità di rivalsa sociale attraverso la liberazione del proprio Io istintivo e primitivo. Condannato da secoli, il lupo è un animale innocente.  È immaginabile quindi che anche l’uomo lupo sia meno infernale di quello che ci fanno credere.

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