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Cenerentola a Parigi

Regia di Stanley Donen vedi scheda film

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La recensione su Cenerentola a Parigi

di PompiereFI
6 stelle

Come sono fastidiosi gli americani a Parigi. Per conseguire una rima in musica con parole francesi sono disposti ad arrampicarsi su improbabili metriche, e per sentirsi a casa si comportano come fossero a Las Vegas, disinvolti spacconcelli col sorriso sulle labbra. Quello che in realtà sanno fare meglio è rimasticare e prendere in giro la cultura altrui per imporre la propria, orribile divulgazione di predominio e propaganda. Trattano la Francia alla stessa stregua della Spagna, tanto per un americano medio è pure troppo cercare di capire la differenza. A lui basta l’esibizione dell’efficienza degli aerei della Trans World Airlines (oggi American Airlines), che volano ad altezza della Tour Eiffel con un’indifferenza disarmante quanto quella di un bambino che sorride dopo aver fatto la pupù sul tappeto.

Cartolina da Parigi troppo esibita, e debole pretesto per mostrare i bei monumenti della capitale francese, “Cenerentola a Parigi” è un musical molto edulcorato e piuttosto superficiale. Nasce in una splendida redazione del giornale di moda “Quality”, tra gli ossequi delle segretarie verso la loro inflessibile direttrice Maggie Prescott (Kay Thompson) e la tinteggiatura delle porte di un colore che la responsabile pensa possa far crescere la tiratura della rivista, il rosa.

Di quel tono è anche l’animo di Jo (Audrey Hepburn), una piccola e tenera venditrice di libri che viene coinvolta nella ricerca della nuova ragazza-immagine da esibire come indossatrice per la campagna promozionale di uno stilista europeo. Il personaggio di Jo/Cenerentola (pessima idea la traduzione del titolo originale “Funny face”) cede quasi subito, e senza molta convinzione, alla forza devastante di Maggie e del fotografo Dick (Fred Astaire), per il quale mostra una certa simpatia. L’antefatto è velocemente costruito; è tempo di partire per Parigi!


Di solito sono sempre molto ben predisposto verso la spensieratezza di certi film, ma c’è un limite che dovrebbe rispettare la credibilità dei personaggi, le loro emozioni e quelle dello spettatore. Invece i protagonisti sono caratterialmente ammuffiti e ci regalano qualche perla recitativa, danzereccia e professionale che odora di naftalina.

Avvolta da un uso esasperato del colore, la pellicola ricorda impropriamente le case delle bambole: così sgargianti che si vedono da distanze impossibili e poi, quando ti avvicini, scopri che mancano di pareti. Ecco, “Funny face” è così: ci ubriaca con inutili variazioni cromatiche, sia in interni che in esterni, ci fa assistere a defilé di moda con vestiti neanche tanto pregevoli, ci inganna con una finta sottotraccia educativa che sembra progressista, e poi ci abbandona nella casa di cui sopra, preda di sterminati spifferi narrativi, causa mura assenti.

Poco possono fare i grandi occhi da cerbiatto di Miss Hepburn, attrice maestosa che dimostra anche di saper ballare e cantare nonostante l’accerchiamento costante di matusa pettegoli e iperenergici. A dispetto delle melodie di Gershwin, orchestrazioni e composizioni musicali di rilievo, si registrano testi abbastanza trascurabili. L’unico numero considerevole, accompagnato da un’eccezionale sostegno coreografico, è l’esibizione non cantata della Hepburn nel night avanguardista parigino. È lì che Stanley Donen ha l’unica possibilità di dimostrare di essere un bravo regista (per vedere un suo memorabile musical rivolgersi, per esempio, a “Cantando sotto la pioggia”).

Il finale riserva una bella innaffiata d’acqua per tutti i collezionisti di moda dei quartieri alti newyorkesi e internazionali; coloro i quali non sanno di filosofia, poesia, arte o amore. Tutte vibrazioni necessarie alla vita vera, che arriva camuffata sotto le spoglie del sapiente “enfaticalista” Emile Flostre, anima gemella di Cenerentola e da lei inseguita per interi anni quando ancora pensava che i libri potessero insegnargli qualcosa. Ma è una vita che Jo non conoscerà mai, rivelandosi una frigida ragazzina sopraffatta dalla superbia, dalla maturità anagrafica e dal tip-tap di Fred Astaire.

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