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Made in Italy

Regia di Luciano Ligabue vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Made in Italy

di alan smithee
5 stelle

Ormai ne siamo coscienti da quasi un decennio: la generazione di chi interagisce nel mondo del lavoro oggi si ritrova quasi sempre a vivere di comodità e begli orpelli consentitici dalla digitalizzazione dilagante, dall'irresistibile richiamo dei socials e dei condizionamenti mediatici: ma ci ritroviamo di fatto, fondamentalmente poveri e schiavi di un compromesso che ci rende tutti, chi più chi meno, decisamente più precari della generazione che ci ha preceduto. 

Quasi ognuno di noi, confrontandosi col proprio padre, si ritrova ad affrontare una situazione che, non solo economicamente, lo rende più esposto ed insicuro rispetto alla situazione del proprio genitore, che forse, anzi certamente, si sbatteva di più, faticava di più, rischiava di più, ma disponeva di più opportunità, di più potere d'acquisto, di più libertà di agire secondo le proprie esigenze ed attitudini od ispirazioni.

Riko si trova parimenti ad abitare in una casa enorme che suo nonno ha costruito, e suo padre ha ampliato, ed egli ha solo la possibilità di vendere, anzi svendere - perché nemmeno più il mercato immobiliare funziona, il mattone che si disgregs, e che anzi è stato il primo ad andare in crisi dopo le scellerate speculazioni a livello mondiale da parte della finanza creativa, ma non solo.

Riko guadagna 1200 euro al mese insaccando mortadelle da trent'anni, con lo spettro di una disoccupazione imminente che lo circonda e lo apsetta al varco senza nemmeno degnarsi di fornirgli una spiegazione plausibile, se non convincente.

Forse anche per questo i rapporti con la moglie sposata giovanissima sono ormai improntati verso una reciproca glaciale indifferenza, vissuta con atona reciproca insofferenza; e forse anche per questo l'uomo teme che il figlio ormai adulto, concepito appena ventenne, faccia la sua stessa fine scegliendo di vivere quella stessa sua grande esagerata casa, scegliendo il compromesso del restare in famiglia piuttosto che rischiare e costruirsi un avvenire con le proprie mani.

Per fortna ci sono gli amici, la goliardia salvifica che spinge a resistere nonostante tutto, e una buona sana onestà di fondo che aiuta ad affrontare, finalmente di petto, guardandosi negli occhi, crisi famigliari solo all'apparenza insanabili. Al cospetto di amici che nascondono poi problemi ancora più gravi, tra salute traballante e vizi irrinunciabili, pure loro intenti a disgregare velocemente patrimoni costruiti dagli avi in vite intere di sacrifici.

Alla sua terza regia dopo un lungo intervallo durato quindici anni, il rocker italiano di gran successo Luciano Ligabue ritorna nella sua (Reggio) Emilia per raccontarci la storia dei medesimi (più o meno) protagonisti delle sue precedenti avventure, cresciuti ed ormai più che quarantenni, nel Paese della precarietà e della insicurezza, ove tuttavia tutto è a portata di mano con un semplice click.

A livello di regia Ligabue si comporta nuovamente piuttosto bene, e nelle inquadrature, nelle riprese, nello svolgimento tecnico il film convince allo stesso modo in cui ci appare consono e coeso il cast, ove primeggia la coppia focosa e ben assortita composta dall'ideale alter ego Stefano Accorsi e da una sensuale Kasia Smutniak.

Quello che convince un pò di meno, molto di meno, è lo script, all'interno del quale l'autore come sempre "se la canta e se la suona", nel vero senso del termine, convinto sino all'ossessione che sia sufficiente l'amicizia cameratesca soludale e virile di classe, per sopravvivere alla desolante depressione che ci affligge, e che spacca la società in due tronchi sempre più netti: i manager di successo sempre più ricchi e potenti, e il resto del paese che vive nella precarietà più desolante, reo di non aver saputo fare le scarpe al suo vicino di posto o collega, di non aver saputo cogliere scaltramente l'attimo, di non avere avuto l'ambizione di inventare nulla di così fantastico ed irrinunciabile per la massa, da poterlo rendere ricco e potente a scapito di tutti gli altri poveri utenti senza personalità, schiavi di un applicazione o di un trend di massa irrinunciabile.

Non giovano nemmeno molto alla riuscita della pellicola, tutto sommato media e passabile, certe ostentazioni kitch come quella dello "squalo" (auto stupenda, per carità, ma cinematograficamente troppo impegnativa, almeno in questo contesto) come mezzo di locomozione del nostro Riko, né certe ambientazioni artificiose come il matrimonio tra i ruderi della fabbrica abbandonata, con l'officiante il rito (che è il comunque ottimo Gianluca Gobbi, già Paolo Villaggio nel recente prossimo biopic su De André) che mette tutto in barzelletta e finge di rinunciare a proseguire il rito. E poi troppi girasoli, una scena romana di pestaggio attaccata così senza molto costrutto.... tipo "passavamo da li"....; e soprattutto troppe cornici luminescenti e troppi cartelli-confessionale entro cui aprirsi al pubblico giudizio!!!

Troppo "amarcord" insomma, troppa finta complicità di squadra, troppi bilanci a tutti i costi, quando sappiamo che in tempi di crisi come questi, purtroppo, il cameratismo di classe è una bella gradevole favoletta dolceamara che sta giusto bene dentro una commedia costruita per piacere e recuperare sin troppo facili consensi.

 

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