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The Post

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su The Post

di Malpaso
8 stelle

The Post è un inno alla libertà di stampa, di pensiero, di conoscenza, soprattutto quando in contrasto con gli organi di potere, quindi sovversiva.

Ci sono dei momenti in The Post nei quali l’occhio di Spielberg abbandona il proprio posato classicismo per assalire la figura dell’insicura protagonista femminile, girandole attorno, scavalcandola e infrangendone l’intimità: si tratta di un deragliamento voluto, una deviazione dal fil rouge che lega le ultime fatiche del regista statunitense, già epico narratore della storia americana negli altri due capitoli di una possibile trilogia concettuale, ovvero Lincoln e Il ponte delle spie.

 

Questa volta siamo nel 1971, quando il Times e il Post decisero di pubblicare i Pentagon Papers, documenti governativi contenenti verità sulla guerra del Vietnam celate ai cittadini. L’opera di Spielberg è inattaccabile, perfetta nella misura in cui l’autore si astrae per lasciare spazio alle interpretazioni di due mostri sacri come Meryl Streep e Tom Hanks, supportati da comprimari di livello tra i quali spiccano Tracy Letts e il Bob Odenkirk di Breaking Bad e Better Call Saul, ma allo stesso tempo rivendica un ruolo politico a cui il proprio cinema non si è mai sottratto.

 

Così finiscono i tempi in cui stampa e potere possono andare alle stesse feste, il direttore del Post Ben Bradlee può ricordare l’abito rosa di Jackie Kennedy macchiato dal sangue del marito, ma non può scriverne senza compiere una scelta. La stessa scelta cui non può sottrarsi la tormentata Kay Graham, interpretata da una grandissima Streep, donna priva di certezze, assillata da un generale pensiero machista (la cinepresa la guarda dall’alto in basso), scissa tra l’amicizia e il tradimento, di sé, del popolo e, soprattutto, dei figli mandati in guerra. Spielberg gestisce con maestria e grande senso della misura la ricostruzione storica, integrandovi l’approfondimento psicologico della protagonista femminile.

 

L’estetica anni settanta ben si sposa con lo spirito politicamente schierato dell’autore, che con tale scelta sembra anche richiamare i suoi esordi risalenti all’epoca della New Hollywood. D’altronde The Post non è altro che un inno alla libertà di stampa, di pensiero, di conoscenza, soprattutto quando in contrasto con gli organi di potere, quindi sovversiva. Ed in questa visione tanto romantica ed idealistica si può riconoscere lo spirito giovanile e anticonformista che, oltre le apparenze e nonostante il suo incontrastato monopolio nello star system contemporaneo, continua ad animare Spielberg.

 

Allora si può chiudere un occhio se la prima parte di film soffre di un evidente problema di ritmo, considerato anche che la seconda è strepitosa, e gli si può di certo perdonare l’eccesso di retorica nel finale, a sottolineare un messaggio già evidente, considerato anche che questa è sempre stata la sua firma. Ma nel suo guardare al passato, Spielberg non ha mai smesso di parlare dei nostri giorni: The Post racconta di giornalisti fuorilegge per un bene superiore, “rubare ai governanti per dare ai governati”, un elogio e allo stesso tempo un’ammonizione, nell’epoca delle fake news, a ricordare i propri doveri adesso che i limiti sembrano essere stati annullati.

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