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La favorita

Regia di Yorgos Lanthimos vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La favorita

di Speusippo
9 stelle

Vent’anni separano la sceneggiatura originariamente scritta da Deborah Davis e l’opera che, attualmente, risulta essere l’ultimo lavoro dell’acclamato Yorgos Lanthimos. Nel 1998, quando la Davis completò un testo per il cinema intitolato “The Balance Of Power”, la produttrice Ceci Dempsey lo accolse con grande entusiasmo, ma il triangolo lesbico posto al centro della trama suscitò le perplessità dei potenziali finanziatori. Dieci anni dopo il produttore Ed Guiney acquistò la sceneggiatura e la propose a Yorgos Lanthimos, all’epoca fresco di Oscar grazie a “Kynodontas”. Il regista greco fu stregato dall’idea. Passo dopo passo, allora, il progetto cominciò ad acquisire consistenza: mutata la sensibilità del grande pubblico, revisionata la sceneggiatura, ottenuti i congrui finanziamenti, radunati cast e troupe, nel 2017 il film raggiunse la fase delle riprese. L’anno successivo quello stesso film, intitolato “La favorita”, avrebbe conquistato riconoscimenti ovunque: un Oscar, un Golden Globe, Leone d’argento e Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia, sette premi BAFTA, due Satellite Awards…

 

Prima della pellicola in questione il cinema di Lanthimos si è sempre concentrato su storie ambientate o nel presente o in un futuro indefinito, e ha sempre toccato elementi come l’assurdo, il grottesco e alcune tematiche derivanti dalla tragedia classica – spesso, infatti, i suoi film ambiscono a suscitare riflessioni che proseguano oltre la visione dello stesso film. La sceneggiatura firmata dalla summenzionata Davis e da Tony McNamara almeno in parte può considerarsi un punto di scissione rispetto alle precedenti produzioni del regista greco, che comunque non ha rinunciato ad alcune costanti della propria poetica. “La favorita” narra una vicenda ambientata nell’Inghilterra d’inizio Settecento, ai tempi della cruciale guerra di Successione spagnola (1700-1714), prima che avesse inizio l’era degli Hannover e di Walpole. Sul trono, mentre in Francia tiranneggiava l’assolutismo di Luigi XIV, sedeva la fragile regina Anna (O. Colman): ultima esponente della dinastia Stuart a godere della Corona, sotto il suo regno avvenne la nascita della Gran Bretagna con l’Atto di Unione (1707) e fu siglata la pace di Utrecht (1713), che segnò l’uscita delle truppe anglo-olandesi dal conflitto che le aveva opposte alle forze francesi. Fu grazie alla guerra di Successione spagnola che gli inglesi ottennero la definitiva affermazione della propria superiorità marittima e commerciale, nonché ampie concessioni territoriali e il sostanzioso privilegio dell’asiento. Tra le figure che contribuirono al successo inglese vi fu quella del comandante John Churchill, duca di Marlborough (M. Gatiss): benché nel film il comandante compaia soltanto nelle scene conclusive, la moglie dello stesso, Sarah Churchill (R. Weisz), vi appare come una delle tre protagoniste. Il triangolo amoroso intorno al quale ruota l’intera pellicola, infatti, ha come vertici la regina Anna, la duchessa di Marlborough e, infine, Abigail Hill (E. Stone), giovane cugina della Churchill caduta in disgrazia in seguito ai guai economici del padre. Il film si apre con l’arrivo di Abigail a corte, dove la Churchill spadroneggia indisturbata: da un lato, essendone la fidata consigliera, tiene a bada la debole Anna; dall’altro, allineandosi a favore del marito, gestisce gli affari di stato sostenendo il partito whig, cui si contrappongono ferocemente i tories guidati da Robert Harley (N. Hoult). I primi sono favorevoli alla prosecuzione del conflitto, i secondi – che temono un rialzo delle tasse – ne vorrebbero la conclusione. Entro lo scenario costituito dal palazzo in cui ha sede la corte della regina si consuma una singolare commedia fatta di intrighi e conflitti, scalate e cadute, eccessi e passioni: Abigail tenta di entrare nelle grazie della regina, Sarah desidera preservare il proprio potere, la regina si concede a entrambe, la guerra continua inesorabile, i due partiti cercano di accaparrarsi il controllo. La storia si sviluppa così, tra sotterfugi e taglienti colpi d’ironia, fino al suo intenso scioglimento.

 

Lanthimos, che si focalizza in maniera quasi ossessiva sulle tre protagoniste, narra la vicenda ricorrendo ai tratti tipici del suo sguardo registico. La maestria del cineasta emerge nettamente in più scene: si pensi alla raffinata composizione di alcune inquadrature (la canna del fucile imbracciato da Abigail ripresa in modo tale che la canna stessa sembri puntare intenzionalmente alla nemica Sarah) o all’intelligente uso del fish-eye, che non fornisce soltanto sequenze spettacolari, ma concorre anche al tentativo – riuscitissimo – di evitare che i fatti narrati sembrino il prodotto di un’artificiosa messinscena dai toni museali. In particolare, il ricorso al fish-eye consente a Lanthimos di attualizzare la vicenda rendendo i personaggi presenti allo spettatore, come se fossero al di qua della macchina: in tal senso, il regista pare quindi riprendere le considerazioni sviluppate da Carmelo Bene su Buster Keaton nella famosa intervista pubblicata anni or sono da Rai Tre. Non solo, però: è sempre attraverso il fish-eye, infatti, che Lanthimos riesce a porre i suoi personaggi in una sorta di gabbia. Anche i primi piani, i grandangoli e le inquadrature frontali, nel film, ricevono degna esaltazione: sostenuto da un’ottima sceneggiatura e dalla notevole interpretazione delle tre attrici protagoniste, il regista intesse immagini che colgono l’inquieto e intricato spettro di emozioni addensate dalla Colman sul viso della regina, l’algida fermezza concentrata dalla Weisz nella personificazione di Sarah, l’apparente candore e la ferocia tagliente con cui la Stone vivifica la figura di Abigail. Gli andirivieni per i lunghi corridoi, i drammi torbidi e disperati che si consumano nella compostezza degli appartamenti privati, l’intimità corporea dei gesti e delle relazioni: tutto rientra nello sguardo di Lanthimos, il quale riesce a raccontare con lodevole sapienza la fitta selva di sfumature che permea il singolarissimo triangolo lesbico posto al centro della vicenda. Tre figure realmente esistite, tre figure appartenute a un contesto ormai lontano, tre figure attraverso le quali passarono sia sentimenti personali sia decisioni in grado d’influenzare il destino di un intero regno. Tutte e tre restituite da Lanthimos in maniera penetrante allo spettatore.

 

Come accennato in precedenza, non soltanto il regista greco merita degli elogi. La sceneggiatura di Davis e McNamara più volte menzionata, infatti, è un testo di squisita fattura: suddiviso in capitoli dai titoli tanto emblematici quanto ironici, si serve abilmente di alcuni motivi topici (si pensi al tè avvelenato) e individua uno dei suoi punti di forza nella costruzione dei tre personaggi principali. La regina Anna emerge dal testo come una donna sofferente tanto nella mente quanto nel corpo: la gotta non le concede tregua, le diciassette gravidanze perdute si sono trasformate in un demone inquietante, l’insicurezza che la perseguita le rende difficile sostenere le apparizioni pubbliche, il timore di subire degli oltraggi le procura isterici accessi di brutalità, l’amarezza che scorge nella propria vita trova sollievo soltanto in alcuni momenti d’infantile spensieratezza. A ciò si aggiunga un fisico sempre più cascante, vessato dalle irrequietezze che mai cessano di perseguitarla. Diversa e altrettanto affascinante è la figura di Sarah Churchill, mascolina e risoluta, ma non estranea al sentimento: se da un lato riesce a reggere con sagacia e decisone gli affari di stato, dall’altro prova rabbia per l’opportunismo della cugina, affetto per la sofferente regina, e amore per il marito in guerra. Peccato imperdonabile sarebbe trascurare il terzo vertice del triangolo, Abigail Hill: attraverso una parabola che dalla cruda nudità della condizione servile la proietta sino al titolo nobiliare, la giovane riesce a districarsi con astuzia tra le stanze del palazzo, forte di una maschera innocente e di una mente capace di ordire minuziosi calcoli opportunistici. Spesso, poi, è Abigail a fungere da propulsore comico: a lei, infatti, possono essere attribuite alcune delle battute più riuscite o alcune delle scene maggiormente pervase dall’ironia tanto esplosiva quanto salace che caratterizza il film. Per certi versi, il personaggio in questione sembra rivelare un erudito collegamento intermediale: elementi come la sua indole e il suo percorso, infatti, la rendono estremamente simile a un notevole personaggio della letteratura inglese cui Davis e McNamara potrebbero essersi ispirati. Il riferimento è alla magnifica Becky Sharp ritratta dal grande William Thackery in “Vanity Fair”, romanzo pubblicato intorno alla metà dell’Ottocento. Le somiglianze tra Abigail e Becky paiono riflettersi persino nella scelta dell’uomo da sposare: entrambe optano per un nobilotto di modesto ingegno, entrambe occupano il ruolo di cervello della coppia, entrambe si servono del marito per nobilitarsi. Anche i mariti vengono ritratti in atti simili: tanto nel film quanto nel romanzo, infatti, i due vengono colti mentre fumano un sigaro espirandone con piacere il fumo a cerchi. Sia chiaro: la costruzione delle tre protagoniste mai avrebbe conseguito la sua massima esplicitazione se le stesse non fossero state mirabilmente impersonate dal trio di attrici summenzionato. In particolare, un plauso dev’essere rivolto a Olivia Colman, che interpretando la regina Anna tocca uno dei propri vertici. Viso, corpo e voce sembrano ospitare con l’intensità più totalizzante la complessità racchiusa nello spirito della tormentata sovrana. La Colman riesce dunque a rendere memorabile un personaggio difficile, il quale proprio nella prova dell’attrice trova un’anima unica e incisiva.

 

Altro pregio legato alla sceneggiatura sta nel linguaggio che anima i personaggi della stessa: Davis e McNamara si avvalgono di una brillante pluralità di registri, i quali non solo attualizzano i personaggi, ma contribuiscono anche a renderli più reali. O qualcuno credeva forse che secoli fa, a corte, si parlasse esclusivamente la colta lingua che intere schiere di poeti hanno impiegato per elaborare un sublime ritratto degli ambienti popolati dai loro protettori? Tutti i personaggi, alcuni in misura maggiore altri in misura minore, parlano mediante registri diversi: toni enfatici e solenni nelle occasioni più formali, parole sincere o triviali quando è loro concessa la possibilità d’esprimersi senza vincoli di circostanza. Indubbiamente questo attento uso del linguaggio è anche ciò che consente agli sceneggiatori lo sviluppo di alcune tra le scene più ironiche. Non solo: con riferimento al linguaggio, un plauso dev’essere rivolto a Emma Stone, sottopostasi con successo a un corso di dizione finalizzato a consentirle di acquisire una credibile cadenza britannica.

 

Le tematiche intorno alle quali, poi, insistono tanto il testo elaborato da Davis e McNamara quanto la regia orchestrata da Lanthimos sono essenzialmente le seguenti: da un lato, l’interazione tra personaggi dalla psiche e dagli scopi differenti, tutti legati a uno specifico ceto sociale e a un preciso ruolo storico; dall’altro, la ricerca del potere e dell’affermazione personale, con conseguenti imbruttimenti e degenerazioni. Della prima tematica si è già detto in precedenza, descrivendo i personaggi principali; della seconda tematica, invece, alcuni aspetti ancora non sono stati sottolineati. In primo luogo, la ricerca di potere e affermazione è strettamente congiunta alle interazioni psichiche del triangolo amoroso: da ciò il film trae notevole coerenza interna e particolare vigore espressivo. In secondo luogo, tale tematica è validamente declinata attraverso il ricorso al corpo. Un pene in erezione nascosto dai pantaloni, volti ricoperti di sterco maleodorante e volti macchiati di sangue schizzato dal corpo sventrato di un piccione, una gamba deforme massaggiata da mani delicate, volti oppressi dal flaccidume e volti sfigurati da piaghe orripilanti, un candido seno scoperto tra le lenzuola, labbra che si congiungono in vibranti e carnali passioni, visi maschili ridicolmente imbellettati, il corpo nudo di un giullare dalle satiriche fattezze che viene utilizzato come bersaglio dagli esponenti della classe politica, bocche che ingurgitano e vomitano, un piede che schiaccia un coniglio con sadica insistenza, una mano che schiaccia una testa con fosco rancore… “La favorita” è sì una commedia dall’umorismo spesso pungente e bruciante, ma il quadro che emerge dalla conclusione del film è dominato da un’innegabile cupezza: i rapporti di amore e potere che tanti segni hanno impresso sui corpi dei personaggi pervengono a un’amara degenerazione.

 

Non possono mancare alcune parole per fotografia, musiche e costumi. La prima, curata dall’esperto Robbie Ryan, si avvale del solo ricorso alla luce naturale, riprendendo così la grande lezione del Kubrick di “Barry Lyndon” – film tratto, guarda caso!, da un romanzo del succitato Thackery. Spettacolari le scene notturne, contraddistinte dall’uso di fiaccole: ottima, in questo senso, la sequenza che ritrae il teso volto di Rachel Weisz ondeggiare nell’oscurità. Gli esiti migliori, come accennato in precedenza, vengono raggiunti con l’uso del fish-eye e del grandangolo, che introduce venature di prigionia nella percezione dello spettatore. Quanto alle musiche, la colonna sonora curata dal sound designer Johnnie Burn non ricerca l’accuratezza storica, bensì la coerenza emozionale tra brano e scena, riuscendoci: ecco allora le note di Bach, Händel, Vivaldi e Schubert, oppure le novecentesche composizioni di autori come Messiaen e Ferrari, nonché i brani contemporanei di Anna Meredith. Sulla magnifica “Skyline Pigeon” di Elton John, che funge da introduzione ai titoli di coda, si tornerà più avanti. Infine, i costumi: l’abile Sandy Powell, che per il proprio lavoro ha ricevuto premi e candidature, si è dedicata con attenzione alle peculiari esigenze dei tre personaggi principali. Nell’abbigliamento di Abigail si riflette un’ascesa sociale che giunge a farsi sgargiante ostentazione; in quello della regina Anna, spesso ritratta in camicia da notte, si palesa una regalità resa iconica dall’abbondante uso di ermellino; per il personaggio di Sarah Churchill, infine, fogge severe e maschili ispirate al lavoro svolto dalla stessa Powell sul set di “Orlando” per il personaggio di Tilda Swinton. Da non scordare, poi, il significativo intervento eseguito sui personaggi maschili, tutti vistosamente imbellettati e frivolamente abbigliati: una comica inversione del paradigma tradizionale che rende le figure maschili degli elementi decorativi. Anche nei costumi, dunque, si celano elementi che concorrono alla valorizzazione del film.

 

“La favorita”, girata all’interno di splendide residenze nobiliari quali Hatfield House e Hampton Court (in quest’ultima la regina Anna alloggiò realmente), attesta la grandezza di Yorgos Lanthimos in maniera inequivocabile. Orchestrando con notevole ingegno una commedia dall’ambientazione storicamente definita in cui si intrecciano elementi biografici, guizzi di sottile e penetrante ironia, temi intriganti e ottime soluzioni visive, il regista ateniese costruisce una storia di passioni e opportunismo in cui il genere umano – come spesso accade nel suo cinema – dà di sé un’immagine risibile e grottesca, ambigua e amara. Nel brano che conclude definitivamente la pellicola, ossia la “Skyline Pigeon” di cui prima, sulle note dal suono barocco del proprio clavicembalo Elton John canta: “Fly away, skyline pigeon fly / Towards the dreams / You've left so very far behind”. Parole rivolte all’irrequieta regina Anna con inaspettata benevolenza da Lanthimos? Forse. Anche William Thackery soleva schernire e nel contempo empatizzare con i propri personaggi. Tutti parte di un’umanità che, grazie allo sguardo straordinario di Lanthimos, ci appare in una prospettiva tanto sconcertante quanto conturbante. Che “La favorita”, primo passo all’interno di un momento considerabile come una sorta di antitesi hegeliana nella carriera di Lanthimos, prefiguri la realizzazione di un capolavoro in grado di consacrare definitivamente il valore del cineasta greco?

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