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Il lungo giorno finisce

Regia di Terence Davies vedi scheda film

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La recensione su Il lungo giorno finisce

di Aquilant
8 stelle

Storia di una parziale chiusura al mondo ed alle sue brutture, tra sensi di colpa a carattere religioso che assalgono il protagonista crocifiggendolo ad un futuro quanto mai incerto. Dramma del rifiuto di venire a patti con la realtà esterna a coronamento di una fanciullezza solcata da sensi di colpa e da dolorosi ripiegamenti interiori.
Ma il tema della scoperta della propria condizionante diversità è da considerare una costante nella filmografia del regista ed è largamente trattata nella sua “Terence Davies Trilogy”, composta da “Children” (1976), “Madonna and child” (1980) e “Death and transfiguration (1983). Chiaramente il film si riallaccia a queste opere anteriori ed anche a quella immediatamente precedente: “voci lontane…sempre presenti” ed è totalmente incentrato su un mondo visto con gli occhi infantili di un controverso ragazzo, Bud, alter ego del regista, forse troppo maturo per la sua età e consapevole della sua discriminante condizione che presumibilmente sarà destinata a diventare la “compagna di cella” di tutta una vita. La sua fervida fantasia lo spinge a chiudersi in un mondo completamente precluso a presenze esterne ad eccezione delle figure della madre e della sorella, destinate a sostituire un padre presumibilmente degenere la cui ombra a tratti si intuisce lungo il percorso narrativo, evocata in incubi notturni in cui riemergono i mostri dell’inconscio.
Cinema fatto di sensazioni, di impressioni, di sogni nel cassetto, di ricordi personali filtrati attraverso la poesia della sguardo, itinerario straziante lungo una memoria del passato che racchiude il trauma primordiale di una scoperta casuale destinata nel tempo a rigenerare ferite sempre più aperte ma dolorosamente negate alla vista di un mondo chiuso nel suo disperante egocentrismo discriminatorio. Malinconiche sottolineature musicali dalla melodica vena sonora e tenui atmosfere invernali dai toni pastellati conferiscono all’ambiente circostante una patina nostalgica imbevuta delle suggestioni di un passato diegetico dal sapore di un (non)tempo immalinconito e completamente sospeso in una dimensione a metà fra il reale ed il favolistico.
Il mondo del regista è aperto all’introversione più assoluta, ad un raccontarsi addosso disarmante e sincero allo stesso tempo, ad un denudamento del proprio io narrante tramite un linguaggio semplice, intuitivo, con un’allusiva immersione nella purezza della poesia. Nettezza dello sguardo raggiunta tramite l’ausilio di movimenti di macchina molto controllati e di premurosi piani sequenza affrontati con la volontà di chi è deciso a coordinare i propri processi mentali con il procedimento narrativo proprio delle immagini filmiche. Si privilegia in tal modo un procedimento ellittico che invece di spezzare la consequenzialità del racconto ambisce a restituire alla vicenda quello “stream of consciousness” infantile colto nei suoi momenti più indelebili. Trionfo dello sguardo aperto sul mondo ma predestinato a chiudersi in sé stesso.





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