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My Fair Lady

Regia di George Cukor vedi scheda film

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La recensione su My Fair Lady

di Aquilant
8 stelle

Scenografie da kolossal per un film d’altri tempi, vera e propria delizia per gli occhi, che ci ripropone una gradevolissima Audrey Hepburn, antidiva per eccellenza, in un ruolo apparentemente in antitesi con quelli tagliati usualmente su misura per la sua raffinatissima personalità. Questa “My fair lady”, pregnante opera di gradevole piglio narrativo, risente ovviamente di una mania di gigantismo hollywoodiano che non lesina sui costi pur di dispiegare sulla scena prodotti in grado di stupire l’audience grazie alla loro maestosità, agli sfavillanti costumi e ad una colonna sonora in grado di colpire continuamente nel segno. Bisogna pur rilevare che a tutt’oggi il film ha conservato una buona parte del suo smalto originale, pervaso com’è di una freschezza e di un senso del ritmo non comuni grazie anche alle ottime prove di bravura del gigioneggiante Rex Harrison e dell’indimenticabile Audrey Hepburn, emblema perenne della leggiadria fatta persona, che con le sue delicate movenze di danza ed i tocchi vellutati della sua voce (in originale naturalmente) riesce ad infondere nei nostri cuori freschi rivoli di gioia e spensieratezza. E’ d’obbligo stendere un velo pietoso sull’assurdo doppiaggio della parte musicale (come può la mente non rivangare nuovamente l’obbrobriosa trasposizione italiana del “Fantasma dell’opera?”) e sul fuorviante accento dialettale attribuito alla protagonista, elementi questi che rendono l’opera totalmente indegna di considerazione nel caso in cui non si voglia afferrare al volo la possibilità di disporre delle facoltà multilinguali gentilmente offerte dalla magia del dvd. Andata in scena per la prima volta al Mark Uellinger Theatre di New York il 15 marzo 1956 con protagonisti Rex Harrison e Julie Andrews e forte di 2717 repliche nell’edizione americana e di 2281 in quella inglese, la storia della fioraia e del suo “pigmalione” è diventata ormai un patrimonio culturale del cinema e non ha bisogno certo di presentazioni, anche se dopo un’attenta rilettura in chiave critica emergono degli elementi secondari posti inizialmente in secondo piano a causa dell’irrefrenabile andamento della vicenda, che lasciano intravedere una totale mancanza di interclassismo fra i diversi strati sociali inglesi all’inizio del secolo. Ovvio che lo stridente contrasto fra lo spiazzante atteggiamento di condiscendenza della nullatenente Eliza Doolittle ed il supponente senso di superiorità del benestante professore Henry Higgins, potenziale allievo di Friedrich Nietzsche quale fautore di una sua personale teoria del superuomo basata sul totale disprezzo delle categorie meno abbienti ed esponente di una classe sociale inglese fra le più retrograde e reazionarie, non può non richiamare alla mente per assonanza echi ed atmosfere della cosiddetta età dell’oro thatcheriana, progenitrice dei più svariati malesseri della nostra società industriale. In aperta contrapposizione ad un'arroganza di stampo padronale si pone la schiettezza tutta proletaria di Eliza che nel corso della sua splendida metamorfosi da brutto anatroccolo a splendido cigno non perde di mira quelle sue prerogative di spontaneità e di freschezza neppure dopo un ripetuto sguardo critico su un mondo che vive di miraggi e di apparenze, abituato a specchiarsi nei suoi saloni vuoti di umanità, seppure sfavillanti di luci riflesse e principesse transilvane. E tra l’incudine di una moralità finto-borghese ed il martello delle incertezze di un sottoproletariato urbano percorso da manie di grandezza, alla fine la discutibile scelta della protagonista tutta tesa ad avallare la teoria dei corsi e ricorsi storici e ad alimentare nuovi impulsi di misoginia ci lascia quanto meno perplessi, se solo ripensiamo al povero pretendente Freddy Eynsford-Hill ancora lì sotto il portone col suo bel mazzo di fiori(ormai sfiorito) in mano, intento a cantare “PEOPLE STOP AND STARE, THEY DON’T BOTHER ME, FOR THERE’S NOWHERE ELSE ON EARTH THAT I WOULD RATHER BE, LET THE TIME GO BY, I WON’T CARE IF I CAN BE HERE ON THE STREET WHERE YOU LIVE”, versi di un banale e retorico leit motiv riproposto qualche anno fa dalla bravissima Holly Cole, che lo ha tramutato in un vero e proprio gioiello di raffinatezza e musicalità.

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