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Petit Paysan - Un eroe singolare

Regia di Hubert Charuel vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Petit Paysan - Un eroe singolare

di yume
5 stelle

Un epicedio che del canto funebre ha solo la cupa ritualità delle esequie.

locandina

Petit Paysan - Un eroe singolare (2017): locandina

Quando si dice i traumi infantili! Non solo ti segnano a vita ma, ed è il risvolto positivo, ti possono aprire una carriera.

La “mucca pazza” fu il trauma infantile di Hubert Charuel, e la sua carriera di regista è partita col botto, tre César per un’opera prima, Pétit paysan - Un eroe singolare e tanti applausi alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2017 non sono uno scherzo.

 

Certo bisogna nascere in una fattoria piena di mucche da latte, come lui, fuggirne via per studiare da regista e, forse, portarsi appresso qualche senso di colpa. Forse con la madre non si capivano molto bene e, ancora forse, quell’isolamento nel grigiore della campagna francese ti fa diventare misantropo e misogino insieme, chissà.

Forse i forse sono troppi e la biografia di un artista non deve surclassare l’opera, altrimenti staremmo ancora lì a pensare che se Leopardi ecc. ecc.

Guardiamo invece il film e pensiamo a Pierre, il suo eroe, così lo definisce il sottotitolo italiano e bisogna capire perché e in cosa eroe.

Swann Arlaud

Petit Paysan - Un eroe singolare (2017): Swann Arlaud

Pierre (Swann Arlaud) ha qualche problema, di lavoro e di sviluppo della personalità.

Ama le sue mucche come sé stesso, anzi di più, non ama gli esseri umani (la sorella rompipalle veterinaria che vuol denunciare la malattia della mandria, la prosperosa panettiera che lo impalmerebbe volentieri, gli amici fin troppo buoni con lui che li tratta a pesci in faccia, padre e madre che sbologna a far vacanza in Corsica per aver campo libero con le sue amate mucche da salvare).

Salvare da cosa? Dalla decimazione. L’epidemia di encefalopatia spongiforme che negli anni ’90 fece strage di bovini in tutta Europa fu una cosa seria, non mangiammo più carne di mucca per anni (e fu un bene, a prescindere), i controlli furono drastici, bastava che una si ammalasse si sterminava la mandria e gli indennizzi chissà, forse molti allevatori sono finiti sul lastrico.

Nel film c’è un allevatore blogger che carica video su you tube per denunciare il mancato arrivo degli indennizzi e la cosa colpisce tanto Pierre che decide di andare a cercarlo con tutte le sue mucche al seguito (sono 26 ed entrano tutte nell’enorme Tir, tranne il vitellino che resta seduto sul sedile del navigatore accanto a lui).

Vorrebbe ripararle nella stalla del collega ormai vuota e disinfettata fino alla fine dell’epidemia, ma l’altro ha progetti bellicosi di video-ripresa e denuncia del mancato indennizzo sui social, insomma Pierre riprende le sue mucche e se ne torna a casa, a lui interessano solo le mucche, e non si sa bene perchè.

E arriviamo al punto: il suo attaccamento agli animali al limite dell’ossessivo se non del patologico.

Qui non si fa un saggio di psicopatologia, si parla del film, ma questo è un film che di psicopatologia sembra un manuale.

Amore per gli animali? Forse toccava al regista farlo trasudare dallo schermo.

Bisognava “pedinare il suo personaggio senza mai diventare ripresa emotiva né lancio di messaggi” (v. La pelle dell’orso di Marco Segato, per citare un giovane, “buon cinema fatto di cura, mestiere, amore per le storie, gli uomini, il loro essere al mondo così dove nascono e dove tocca ingaggiare qualche lotta per la sopravvivenza” ) o, se vogliamo andare alle icone del cinema,pensiamo a Vittorio De Seta e alle povere pecorelle di Banditi a Orgosolo  dove “… il gregge è l’anima di questo film, ha i suoi momenti di virgiliana dolcezza nella scena della pecora dalla zampa rotta che Michele si carica sulle spalle, ha quella belante mitezza che lo fa seguire il padrone dovunque, lanosa massa fluttuante fra balze e dirupi, fino a morire, estenuato, senza acqua e con le povere zampe maciullate, carcasse abbandonate su cui volteggiano gli avvoltoi.”.

 

Niente di tutto questo, Pierre è un animale a sangue freddo, dai suoi occhi vitrei non traspare nulla, neppure quando fa nascere il vitellino in una scena-verità che forse a qualcuno sarà piaciuta, ma allora facciamo un’altra citazione, Mektoub, My Love: Canto Uno 2017 di Abdellatif Kechiche con la nascita dell’agnellino “…la sequenza più straordinaria, al centro del film, motore immobile della vita che rotea danzando intorno a quel quarto d’ora di silenzio, solo il bèèè dell’animale, il suo dolore di partoriente, l’amore di madre che lecca i suoi piccoli”.

 

Pierre sembra staccato dai suoi sentimenti, anche quando abbatte a picconate o fucilate le mucche malate non c’è fremito emotivo, non c’è pietas. Eppure, per uno strano equivoco, il film passa per un inno alla pietas, l’aggettivo “virgiliano” è usato e abusato, a sproposito.

La costruzione dell’impianto narrativo risente delle stesse mancanze, i personaggi di contorno sfilano in un carosello che manca di collante, l’idea del “non finito” ricorre spesso.

E’ questo il limite del film, un epicedio che del canto funebre ha solo la cupa ritualità delle esequie.

 

Salviamo una scena, sul finale, campo medio, atmosfera brumosa della sera, la mdp segue l’ “eroe” ripreso di spalle che porta sulle braccia il vitellino morto e lo depone vicino alla carcassa della madre.

L’icona classica del Buon Pastore. Notevole.

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