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A Beautiful Day

Regia di Lynne Ramsay vedi scheda film

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La recensione su A Beautiful Day

di laulilla
7 stelle

Del romanzo di Jonathan Ames, che dà il titolo alla versione originale del film, You Were Never Really Here, la regista ha scritto la sceneggiatura che, sebbene premiata dalla giuria di Cannes lo scorso anno, costituisce, a detta di molti critici, l’aspetto meno convincente del film, costruito più sulla fotografia che sulla scrittura.

Dapprima aveva subìto la violenza di un padre arrogante e manesco fino al sadismo; poi quella barbarica e devastante delle guerre americane: con questa storia personale di paure, di odio e di sensi di colpa, Joe (Joaquin Phoenix) stava continuando a fare i conti, irrobustendo il proprio corpo per temprarlo al dolore più acuto, senza riuscire, però, a indurire il proprio cuore. Al suo ritorno dall’ultima campagna militare, reduce quasi miracolato dal destino, aveva ritrovato la madre (Judith Roberts), della cui sopravvivenza economica ora si prendeva cura volentieri, perché l’amava teneramente, ma aveva fatto fatica a riconciliarsi con se stesso, né gli era bastata l’assistenza psicologica che lo stato americano aveva assicurato a tutti i soldati che come lui avevano portato a casa la pelle. Le spaventose cicatrici disseminate sul suo corpo parevano perciò riflettere soprattutto i mali dell’anima, che si manifestavano durante la notte, percorsa da incubi e paure, dai tormenti che sempre lo riconducevano alle proprie terribili esperienze, in una così claustrofobica coazione a ricordare da togliere il fiato e anche la voglia di vivere. Si manteneva, adesso, con un’attività da investigatore e, all’occorrenza, da sicario professionale infallibile nel colpire e nell’occultarsi rapidamente, interessato soprattutto  a vendicare le vittime degli innumerevoli abusi che colpivano i più deboli. Dopo aver “punito” in modo atroce, su commissione, alcuni delitti sordidi, legati al sottobosco dei pedofili, Joe era stato contattato, perché fornisse la sua opera, da un esponente politico che stava contendendo a un rivale corrotto e vizioso, capo di un’organizzazione mafiosa per lo sfruttamento della prostituzione minorile, la carica di governatore. Costui infatti aveva sicuramente fra le mani Nina (Ekaterina Samsonov) l’irrequieta figlia adolescente, fuggita di casa. Il padre affranto gli affidava l’investigazione, nonché la punizione di tutti i colpevoli, dai manovali del crimine all’illustre organizzatore dello squallido giro di ninfette. Coinvolto in un dramma intessuto anche di trame politiche, Joe stava giocando, in realtà, la partita che avrebbe deciso in ogni caso della propria vita o della propria morte, che egli avrebbe affrontato senza viltà e senza compromessi.

 

 

 

Dopo aver presentato alquanto sommariamente le linee generali del quadro entro il quale si muove Joe, il protagonista del film, voglio aggiungere che si tratta sicuramente di un film molto autoriale della regista scozzese Lynne Ramsay, la stessa che nel 2011 aveva diretto il bellissimo e cupo …E ora parliamo di Kevin. A lei, dunque, dobbiamo ancora una volta la meditazione dolorosa sul male, sul suo insediarsi nell’uomo attraverso percorsi tortuosi e condizionamenti ambientali e sociali difficili da evitare e rimuovere. Del romanzo di Jonathan Ames, che dà il titolo alla versione originale del film, You Were Never Really Here, la regista ha scritto la sceneggiatura che, sebbene premiata dalla giuria di Cannes lo scorso anno, costituisce, a detta di molti critici (assai divisi nel merito), l’aspetto meno convincente del film, costruito più sulla fotografia che sulla scrittura. Grazie alla sua antica passione fotografica, la regista lavora infatti accostando e raccordando, con gusto sopraffino, colori e sfumature, cosicché raffredda in una spettacolare composizione visiva gli effetti splatter più truci e repellenti. Il colore del sangue diventa una sfumatura appena più cupa dei rossi tramonti di Manhattan mentre l’oscurità, puntinata dalle mille malferme luci della notte di NewYork, diventa lo sfondo degli incubi di Joe in cui realtà e immaginazione ossessivamente si alternano e si confondono in un dormiveglia insopportabilmente oppressivo, in cui il presente perde i propri contorni e lascia lo spazio alle allucinazioni e alle angosce. Lo spettatore stesso viene coinvolto in questo incerto susseguirsi di realtà e di immaginazione, ciò che comporta, alla fine del film, una notevole incertezza sulla consistenza verosimile di ciò che ha visto e soprattutto di ciò che ha capito. Non per nulla una parte della critica internazionale ha giudicato severamente questo film, nonostante alcuni pregi innegabili, come la colonna sonora azzeccatissima di Jonny Greenwood e l’interpretazione eccelsa di Joaquin Phoenix, irsuto e imbruttito come non mai, premiato con la Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile. Film abbondantemente citazionista ed evocativo di altro cinema (da Scorsese di Taxi driver all’ Anderson di The master, addirittura al Dillinger di Marco Ferreri chiaramente citato in una scena importante, in cui due cuscini che coprono un volto presentano l’inconfondibile traccia insanguinata dello sparo assassino). Che dire? I difetti rilevati ci sono, ma forse non sono sufficienti a dissuadere un cinefilo dal consigliarne la visione. Era migliore il film precedente, forse, ma questo è intrigante e anche un po’ insolito. Da vedere!

 

 

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