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Quello che non so di lei

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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La recensione su Quello che non so di lei

di Zagarosh
7 stelle

Come Michael Haneke con il suo Happy End cercava di riprendere ciò che aveva già messo in scena per osservarlo con uno sguardo nuovo, così Roman Polanski, con Quello che non so di lei, sceglie solo in apparenza di navigare in acque sicure (le relazioni opache, i grandi spazi chiusi nei quali far muovere i personaggi) ma rinuncia invece a quello che definiremmo polanskiano nella sua forma più classica. Se le opere di Polanski sembrano spesso aderire ad un genere che si rivela poi essere qualcosa di diverso, così quello che si propone come un comune film di suspense, con qualcosa di inconfessabile da scoprire, non crea angoscia per ciò che i personaggi si nascondono a vicenda, bensì per quello che celano alla loro anima. Nelle pieghe del nuovo (e poco godibile) lavoro di Polanski sembra esserci un “film nascosto” che vorrebbe rivelarsi, proprio come il “libro nascosto” che Emmanuelle Seigner (Delphine) cova da anni e che Eva Green (Elle) spera di rubarle dal cuore.

 

Il nuovo film di Polanski è un dramma che non cerca il facile consenso del pubblico, bensì sembra marcare con convinzione quelle che sono le sue mancanze, non essendo mai davvero profondo o complesso e volendo esplorare gli abissi umani solo affacciandosi alla loro superficie e mai immergendosi in essi. Così il regista polacco narra le insoddisfazioni dei suoi personaggi come se fossero anche le sue, parlando di due donne infelici per ragioni speculari: una che vive nella noia di dover scrivere libri per persone famose che non conosce davvero, ed una che non riesce più a reggere il dolore che provoca lo scrivere di sé e che quindi preferirebbe dedicarsi alla narrazione di finzione.

 

Quello che non so di lei, per una fiacchezza nei dialoghi ed un incedere che non avvince mai, non é quindi un lavoro piacevole o in grado di appassionare, ma una operazione teorica e cerebrale che raggiunge il suo scopo nella negazione delle immagini e nella affermazione di una egemonia della sceneggiatura sulla sua figurazione visiva. Egemonia messa in discussione solo dalle brevissime sequenze (pochi secondi su quasi due ore di film) in cui la mano di Polanski si rende di nuovo visibile, ribaltando il rapporto di forza tra regia e scrittura, per riconoscere alla rappresentazione un primato sul testo che le era stato fino a quel momento negato. Così una scena marginale ai fini della narrazione, come quella in cui Delphine scende nella buia dispensa della propria villa per disseminare delle trappole per topi, sembra assumere una urgenza che non ha e una centralità che non le è propria solo per il modo in cui viene ripresa.

 

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