Quello che non so di lei, per una fiacchezza nei dialoghi ed un incedere che non avvince mai, non é quindi un lavoro piacevole o in grado di appassionare, ma una operazione teorica e cerebrale che raggiunge il suo scopo nella negazione delle immagini e nella affermazione di una egemonia della sceneggiatura sulla sua figurazione visiva. Egemonia messa in discussione solo dalle brevissime sequenze (pochi secondi su quasi due ore di film) in cui la mano di Polanski si rende di nuovo visibile, ribaltando il rapporto di forza tra regia e scrittura, per riconoscere alla rappresentazione un primato sul testo che le era stato fino a quel momento negato. Così una scena marginale ai fini della narrazione, come quella in cui Delphine scende nella buia dispensa della propria villa per disseminare delle trappole per topi, sembra assumere una urgenza che non ha e una centralità che non le è propria solo per il modo in cui viene ripresa.
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