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Tonya

Regia di Craig Gillespie vedi scheda film

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La recensione su Tonya

di Malpaso
8 stelle

Un’opera godibile, di gusto fieramente americano, sulle occasioni perse e l’autodistruzione. Ma anche una riflessione sul desiderio di celebrità, sul bisogno di avere idoli da adorare e colpevoli da odiare, quindi sulla relatività della realtà rappresentata, che è la stessa del film.

Tonya di Craig Gillespie è innanzitutto un frullato allucinato palesemente debitore allo Scorsese di The Wolf of Wall Street. Senza stare a dilungarsi troppo, le somiglianze tra i due film non si limitano all’utilizzo di una colonna sonora tanto eterogenea nei periodi e nei generi quanto incessante, al pari della regia sfrenata e virtuosistica, ma anche nel vantare l’attore principale alla produzione, scelta figlia del fatto di volerne dimostrare l’ampiezza della gamma attoriale. Ci riuscì DiCaprio, c’è riuscita Margot Robbie.

 

L’attrice australiana infatti convince pienamente nei panni di un personaggio controverso come Tonya Harding, pattinatrice su ghiaccio statunitense coinvolta nell’aggressione alla rivale Nancy Kerrigan. Gillespie sembra prendere le parti della protagonista, raccontandone le vicissitudini pubbliche e familiari sin dall’infanzia, macchiate dalla presenza corruttrice della figura materna, interpretata dalla bravissima Allison Janney. Lo stile grottesco, complice alcune scelte registiche come lo sguardo in macchina, stemperano una vicenda che si sarebbe potuta raccontare con una drammaticità senza dubbio maggiore. La scelta è azzeccata: se da una parte il film tocca temi non particolarmente originali (quanto si è disposti a rinnegare se stessi per il successo; le colpe dei padri e dell’ambiente in cui si cresce), dall’altra si ha come risultato un’opera godibile, di gusto fieramente americano, sulle occasioni perse e l’autodistruzione.

 

Detto ciò, il film di Craig Gillespie sembrerebbe un buon lavoro senza particolari meriti. Eppure, un motivo di interesse ulteriore è rappresentato dall’ampio utilizzo del registro narrativo dell’intervista, fasulla in quanto recitata dall’interprete anziché tenuta dalla persona reale, e dalla scritta nei titoli di testa che specifica le fonti per la sceneggiatura di questo biopic, ovvero Tonya Harding ed il marito, entrambi giudicati colpevoli a processo. “Ognuno ha la propria verità” dice Tonya Harding, condannata da pubblico e media ancor prima che dal giudice. Così Tonya diventa una riflessione, mai così attuale, sul desiderio di celebrità, sul bisogno di avere idoli da adorare e colpevoli da odiare, quindi sulla relatività della realtà rappresentata, che è la stessa del film: schierato col personaggio, senza però assolverlo. Il cinema, spogliatosi di qualsivoglia impegno politico o sociale, può elevare ciò che è controverso o moralmente ingiusto a puro spettacolo. Più o meno lo stesso meccanismo per il quale il triplo axel della Harding avrebbe dovuto celarne la vita disastrata. 

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