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Bright

Regia di David Ayer vedi scheda film

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La recensione su Bright

di Eric Draven
5 stelle

Will Smith, Joel Edgerton

Bright (2017): Will Smith, Joel Edgerton

Will Smith, Joel Edgerton

Bright (2017): Will Smith, Joel Edgerton

 

Non amo mai essere disfattista e Bright è il classico, lapalissiano esempio di film sul quale, come infatti prevedibilmente è accaduto, ci si può accanire con efferato sadismo, per massacrarlo e ridicolizzarlo. È il tipico film che esemplifica, nei suoi crismi, nel suo concept, nella sua confezione, nella sua grottesca storia ai confini del surreale raccapriccio più obbrobrioso e indigeribile, gli elementi, i topos peculiari del film da detestare, e prendere a testate, potremmo dire, a prescindere. Senza neppure soffermarci per un attimo, sia mai, a prenderlo in seria considerazione, ad aggiustare il tiro e a ridimensionare le pesanti critiche, per l’evidenza incontestabile, spasmodicamente atterrente che, per quanto uno si possa sforzarsi a trovarvi delle cose buone, deve poi inevitabilmente essere oggettivo e dunque apertamente, platealmente deriderlo senza batter ciglio, senza che il minimo dubbio che possa essere cinematograficamente accettabile e piacevole possa sfiorarlo. Ebbene, devo dire che, leggendo a priori le critiche devastanti piovutegli addosso, e dopo averlo ieri sera visto in totale mia rilassatezza domestica, non certo voglio confutare l’assunto, oserei dire inderogabile, secondo cui ci troviamo appunto dinanzi a un film indifendibile ma, sebbene tenti di essergli severo, devo asserire in totale, chiara franchezza che Bright, alla fin fine, se preso per quello che è, non è così detestabile, brutto e “cattivo” come invece tutti pare vogliano farci credere a spron battuto. “Sproniamolo” un po’, dai...

Sappiamo già tutto, inutile ribadirlo ma io, si sa, adoro essere “fastidiosamente” pleonastico e sottolineare l’ovvio. Questo è, a tutt’oggi, il film Netflix più costoso di sempre, ben 90 milioni di dollari di cospicuo budget che, però, il prossimo anno verranno ampiamente superati dall’Irishman di Scorsese ma, al momento, il film più dispendioso è questo, e tant’è... Netflix vi ha investito soldi, denaro squillante e sonante, tante monetine fruscianti a fronte anche di una massiccia campagna pubblicitaria senza pari. Tanto veniamo in questi giorni bombardati da réclame a titoli cubitali, da inserti promozionali che compaiono dappertutto mentre beatamente navighiamo nel net. Ed è inesorabile esserne attratti, perché si sa che la pubblicità fa leva sulla curiosità e la curiosità si alimenta col battage più battente e insistente, tanto da intrappolarci nella sua fitta rete ingannevole, spesso sottilmente melliflua.

Di Bright, dobbiamo accettare l’originale, anche se non troppo, bislacca e assurda premessa. Los Angeles è multietnica, ma il melting pot dal “fatato” plot consta di una razza del tutto inedita, sì, perché l’uomo di questa città dedalica, sporca e polverosa, convive forse da sempre con orchi, fate e viscide creature della notte. In questo crogiolo multirazziale alquanto inquietante, ecco che un pluridecorato poliziotto, incarnato da un quanto mai svogliato e antipatico Will Smith, viene affiancato sul lavoro da nientepopodimeno che da un orco, in carne e ossa, incarnato nel e sul make up al lattice appiccicaticcio che maschera e deforma l’irriconoscibile Joel Edgerton.

Durante un pattugliamento nella periferia più degradata, ecco che i due “sciagurati” assistono a qualcosa di decisamente strano. Un’intera, fatiscente abitazione diroccante è stata presa d’assalto e l’unica sopravvissuta è un elfo con la bacchetta magica delle meraviglie, lo strumento “sovrannaturale” che se cade in mani sbagliate può portare alla distruzione del mondo. Una bacchetta magica molto ambita perché, se invece sapientemente usata, può donare a chi la possiede miracoli e conferire poteri sconfinati. Naturalmente, come in ogni trama che si rispetti, c’è il villain di turno, personificato qui, con un certo fascino, dall’algida, androgina, infrangibile Noomi Rapace.

Riusciranno i nostri prodi, dopo tanti inseguimenti, scazzottate, sparatorie ed esplosioni, combattimenti a fuoco, piroette marziali e sberle tonanti a salvare l’umanità?

Il film è tutto qua, e nel mezzo ci sono le battutine telefonate, partorite da un copione che prende in prestito Alien Nation, dall’umorismo stantio instillato nella strana coppia, mal assortita, di un buddy cop movie assolutamente sui generis che indubbiamente fa ridere assai poco e che, nella sua prolissità, nelle sue digressioni lente e patetiche, che vorrebbero essere invece spassose e ilari, nella sua involontaria ridicolezza emoziona poco e accumula un’accozzaglia pedestre e persino maldestra di stereotipi, cliché talmente banali che quasi parossisticamente funzionano, e iperboli linguistiche che nella loro stravagante, insensata balordaggine potrebbero addirittura indurre al sorriso e alla nostra critica benevolenza.

Ma c’è, a ben vedere, anche la mano ferma di Ayer nelle scene d’azione, perigliosamente girate con grande maestria tecnica e mobile, spericolato, certosino uso della macchina da presa e, in questa buffa, rocambolesca avventura tutta in una notte, alcune atmosfere sono azzeccate eccome, alcune inquadrature, respirano paradossalmente di Cinema puro, quel Cinema quasi artigianale e naïf  che si faceva negli anni ottanta, e che in questo film, proprio in virtù o a cagione della sua sincopata banalità, della sua schietta “palmarità” concettuale tanto ingenua, della sua dozzinalità ampollosa, della sua “filosofia” grezza così lampante, così inconcepibilmente “insopportabile”, funziona e può anche appassionare. Alcune scene centrano il bersaglio, e questi vicoli periferici, coi murales lividi, queste luci al neon sfocate e quasi sibilline, sono un marchio di fabbrica, uno stilema rilevante di Ayer, uno che, se avesse girato semplicemente un duro, incazzato poliziesco alla Vivere e morire a Los Angeles, e non questo trip pasticciato, avrebbe a mio avviso sfornato un grande film davvero. Perché Ayer il talento ce l’ha, va ammesso, e pare sconcertante che non voglia utilizzarlo per storie meno fantasy, meno “fumettistiche” e artificiose, meno campate per aria, meno sciocche e inammissibili. Guardate come fotografa la città, come il suo occhio vola, scivola, plana nei dettagli, come sia scenograficamente rude, irruento, rugginoso. È per questo che Bright non si può bocciare appieno.

E al contempo lo si deve “oscurare”, perché Will Smith è tronfio e poco autoironico, perché Noomi Rapace e i suoi scagnozzi, che tanto parevano “alieni” e invincibili, nel finale soccombono come dei fessi, perché non si respira pathos ed è solo tutto uno spettacolone superficiale, un tripudio d’incongruità che non sazia(no), che abusa di musiche enfatiche quando non se ne sentiva la necessità, perché sbaglia i toni, perché sbanda e rimane spettralmente, aridamente gelido. Un giochetto senz’anima.

 

 

di Stefano Falotico

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