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La casa di Jack

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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L'autore

Badu D Shinya Lynch

Badu D Shinya Lynch

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La recensione su La casa di Jack

di Badu D Shinya Lynch
9 stelle

locandina

La casa di Jack (2018): locandina

 

Se Lars Von Trier sapesse spiegare se stesso, non farebbe film, quindi, in relazione a ciò, The House that Jack Built risulta il suo film più egocentricamente esplicativo, introspettivo e dischiudente, ovvero, l'opera centripetamente più vontrieriana della sua filmografia; il suo lavoro più egoisticamente psicoterapico: si pensi alla vicenda emblematica e pragmatica riguardante Jack che tenta maniacalmente e disperatamente di costruire la "sua" casa, la quale raffigura il cinema del regista danese, e i materiali con i quali assurge a tale tentativo, sono i suoi film. Prova definitiva che, quindi, Trier costruisce architetture filmiche [l'autore, infatti, dichiara: "Ammiro Speer, architetto di grande talento..."] per se stesso; per far sì che esso possa trovare un nido e un aiuto per sé e per le proprie ansie. Ecco perché è, come già scritto in precedenza, paradigmaticamente il suo lavoro più egoistico ed egocentrico, in cui converge tutto il suo cinema; è come se fosse il giusto momento coscienziale in cui ricostruisce se stesso attraverso le sue opere, nonché tramite i vari pezzi del suo intero percorso, anzi, puzzle filmico. Un'opera perturbante e scandagliante, appunto, ma solo per se stesso. Una seduta psicanalitica autoreferenziale, quindi, in sostanza, un lavoro pericolosamente emersivo e velatamente autobiografico. Notare infatti come mai come in questo caso trovino sfogo e spazio, terreno adatto sul quale, ancora una volta, (de)costruirsi, le trasversali "fissazioni" dell'autore su Hitler, sulla misoginia, sulla depressione, sull'odio verso il mondo femmineo, sull'amore per ciò che è oscuro, sul male, etc. Qua, infatti, Trier impone l'importanza iconica del suo operato - attraverso una sorta di kubrickiana cura Ludovico in cui passano sullo schermo varie immagini dei suoi film precedenti-, quindi di ogni sua opera, affinché, indirettamente, per riempimento, inerzia e rivelazione artistiche, dichiari l'importanza capitale di questa sua ultima fatica, in cui, inevitabilmente collassa ed implode, appunto, tutta la grammatica trieriana.

Ecco perché è, forse, il suo film più egotico, nonché masturbatorio, senza, però, arrivare mai ad una vera e propria - per restare in tema - "eiaculazione filmica", quindi, come se il regista rifiutasse la catarsi, non l'accettasse e non la cercasse mai veramente, non vuole sentirne di ripulirsi e svuotarsi, nonché, di riflesso, nemmeno di ripulire e svuotare lo spettatore. Alla luce di ciò, The House that Jack Built risulta essere un film liminale ed esplodente; una pellicola rischiosamente potenziale, "in divenire". Sempre, però, per il suo autore.

 

Matt Dillon

La casa di Jack (2018): Matt Dillon

 

È quasi un'opera(zione) futurista per via della ricerca della bellezza correlata alla perpetrazione della violenza. Violenza talmente estrema e trabordante, di base inaccettabile, che ambisce ad essere bellezza assoluta.

Infatti, si pensi a come il film si sviluppa e si dipana: l'impronta formale, ovvero la mise en scene, va di pari passo con l'impianto narrativo, ovvero con la psicologia del protagonista rapportato all'involucro tramico. Nel senso che Jack vuole fare di questa sua (s)mania d'uccidere, una sorta di opera d'arte, nonché cercare la bellezza (ultima) nella violenza e nella morte, ovvero negli omicidi. Infatti - ecco che subentra l'impronta formale che combacia col tessuto narrativo - il regista nell'epilogo porta il film a diventare visivamente e stilisticamente bello e squisito, nonché magnificamente ricercato. Diventa un'opera d'arte (i ralenti, i plongées, la fotografia espressionista, le inquadrature pulite, una studiata e continua simmetria registica, i quadri frontali anche a campo lungo che sposano spesso la videoarte, lente carralate in avanti come fossero dei dipinti in movimento) rispetto alle riprese disturbate, tremolanti, insicure e spasmodiche iniziali. Come se ci fosse nel finale una combaciante presa di (in)coscienza sia formale che narrativa.

E per diventare un'opera d'arte, è sicuramente risultata necessaria la sofferenza dell'autore [dichiara quest'ultimo: "Gli artisti devono soffrire, il risultato sarà migliore!"], ecco perché, tra l'altro, risulta il suo lungometraggio più sofferto (partorito dopo 5 anni dal suo penultimo film, "record" eguagliato solamente dalla distanza temporale che separa la realizzazione di Breaking Waves da quella di Europa), di conseguenza, il più sincero o, per lo meno, quello che rende più sincere le sue falsificazioni. Insomma, un'opera vittoriosamente ambigua. Tutto ciò concernente la suddetta falsita/sincerità, verrà spiegato (in parte) meglio nel penultimo paragrafo.

 

Matt Dillon, Bruno Ganz

La casa di Jack (2018): Matt Dillon, Bruno Ganz

 

Ogni film di Lars Von Trier è sempre di più un viaggio negli inferi dell'animo umano, nonché nelle profondità irrisolte, sconosciute e paurose di esso. Di conseguenza, anche solo pensando al capitolo conclusivo, The House that Jack Built risulta il suo esempio definitivo, per ciò che concerne il discorso affrontato nelle righe soprastanti, poiché il protagonista del film sprofonda letteralmente in questi inferi coscienziali ed esistenziali, di conseguenza, ci sprofonda pure il suo autore. Addirittura, prima di sprofondarci del tutto, esplora quest'ultimi. Ecco perché risulta anche il suo film più ponderatamente e lucidamente infernale, razionalmente e macchiavellicamente terapeutico, controcampo lucido di Antichrist: questo, a differenza dell'ultimo film di Lars Von Trier, risulta un film più necessario ed urgente, irrazionalmente infernale. In The House that Jack Built, è come se il filmmaker danese si suicidasse artisticamente in maniera definitiva, accartocciandosi e sprofondando nel suo stesso ego, nonché nel suo stesso cinema; al contempo, però, è come se brillasse e risplendesse un'ultima volta, ma, attenzione, in negativo: quindi dichiara definitivamente anche la forza e l'importanza della luce oscura, e la consapevolezza che c'è della luce anche nel male. Dichiarando, in sostanza, che queste due forze opposte coesistano. Si pensi al discorso che l'autore affronta riguardante il sopracitato argomento: dalla decomposizione e, appunto, dalla morte, deriva l'arte. Dalla distruzione e dalla demolizione, quindi, si può generare bellezza. Ricita ancora una volta Speer, tirando in ballo la sua teoria del valore delle rovine per poi arrivare, secondo chi scrive, ad uno degli snodi fondamentali della sua ultima pellicola, ovvero Il Valore delle Icone, nonché la bellezza salvifica ed immortalante come prodotto del male: in questo capitolo si parla dell'aereo Stuka, caratterizzato da un sofisticato dettaglio: il suono, come fosse un maligno ed inquietante grido trionfale, di quando l'aereo va in picchiata; così come il segno che lascia Jack quando precipita nella lava. Quella caduta nel finale è come una vittoria, un trionfo del male, di quella luce oscura. Lui precipitando, si eternizza, ed eternizza le sue gesta, rendendole e rendendosi immortale. Lo stridore dell'aereo, comunque, era intrinseco, come fosse un atto di guerra psicologico. Non si potrà mai dimenticare quel suono. Come non si potrà mai dimenticare l'operato di Jack/Trier: sta realizzando più di un suo capolavoro: sta realizzando un'icona.

Per creare le icone ci vuole, però, un creatore di icone, che è considerato il male finale: un soggetto che è messo in disparte e a cui viene dato poco credito. Un creatore di arte stravagante, di tutto ciò che psicologicamente ha un impatto potente e devastante sul mondo. Quindi The House that Jack Built è anche il suo film più pericoloso e segnante. Una muffa nobile, insomma. E, riagganciandoci all'origine del discorso affrontato in queste righe, le suddette icone (i film di Trier) è come se fossero teoricamente dei desideri che non possono essere espressi e visualizzati nella civiltà controllata, e quindi vengono espressi attraverso l'arte: no. Non è così per l'autore, ed ecco che riconferma la sua (tremenda!) presa di coscienza e consapevolezza, ovvero che è come se paradiso e inferno combacessero, quindi ciò che si vede nei suoi film non è solo "narrativa mentale", ma anche "rischiose proiezioni esistenziali" riprodotte nella sopracitata civiltà controllata. Insomma, c'è sia paradiso che inferno, di conseguenza, sia anima che corpo.

Ecco che quindi The House that Jack Built è il suo compromesso filmico e storico. È il punto in cui converge tutto il suo cinema ed è anche incredibilmente la sua opera più crudamente equilibrante e combaciante. È la sua consapevolezza vitale, quindi carnale e spirituale; una consapevolezza fieramente dichiarata, impressa su pellicola. La sua consapevolezza sia artistica che esistenziale. A conti fatti, con The House that Jack Built, Lars Von Trier giunge ad una sorte di essenziale morte interiore, attraverso la quale, probabilmente, dichiara un punto di rottura nella e della classicità del male del suo cinema; un punto tremendo di guarigione conscia e studiata, pensata; un punto di svolta e, soprattutto, il culmine sia cinematografico che antropologico di una parte(?) della sua carriera.

Sara ancora uguale il suo cinema dopo di ciò?

 

Lars von Trier

La casa di Jack (2018): Lars von Trier

 

Inoltre, l'ultima pellicola del regista di Nymphomaniac, la si potrebbe definire, non solo come il controcampo lucido di Antichrist, ma anche, in un certo senso, come lo specchio scuro di Breaking Waves: in entrambi i casi, negli epiloghi (le campane da una parte e l'inferno dantesco dall'altra) subentra la provocazione (finale) nel finale: subentra il fantastico eccedente, il sacro tridimensionale, il trascendentale rindondante.

 

Matt Dillon

La casa di Jack (2018): Matt Dillon

 

Allo stesso tempo, però, è il lavoro più ipocrita e più falso di Lars Von Trier, poiché è quello che fa capire come ogni suo film dovrebbe essere il suo canto del cigno, il suo film testamentario. In un certo qual modo, The House that Jack Built, risulta essere il suo film testamentario sui suoi film testamentari, di conseguenza, il suo film testamentario sul modo di provocare, sulla sua bugia. Sul suo cinema, insomma. Quindi, in sostanza, il suo falso testamento. Il suo canto del cigno nero. Perché la sincerità di Von Trier è anche questa, ed è proprio per tutto ciò che risulta doppiamente il suo film più autobiografico. Ancora una volta, pesantemente egoistico ed egocentrico. Quello più provocatorio. Il suo film, per assurdo, più razionale e meditato. Il suo film più ubriaco ed inebriante. Il suo film più ipocrita, straordinariamente ipocrita e beffardo. Punto di approdo, non plus ultra di una parabola cinematografica che appunto vive di falsificazioni e aggiramenti di ogni criterio e di ogni canoni. Un concentrato sintetico di tutto cio che ha (dis)fatto. Una dichiarazione d'amore e odio ultima nei confronti del cinema. Una presa di (im)posizione, una sorta di risveglio e anche un punto di rottura poiché è una dichiarazione palese e brutale, poiché cosciente, d'intenti. The House that Jack Built è, forse, insieme a Nymphomaniac, l'opera più provocatoria di Lars Von Trier. Ecco perché risulta pure il suo film più sbilanciato e totalmente autocelebrativo; al limite della masturbazione autoriale.

 

Matt Dillon

La casa di Jack (2018): Matt Dillon

 

A partire da Nymphomaniac, la provocazione trieriariana sembra aver trovato una direzione metacinematografica ed extra-filmica, e The House that Jack Built ne è la maliziosa conferma, anzi, risulta sicuramente il suo film smaccatamente e beffardamente più provocatorio. Quindi, sostanzialmente, la sua pellicola più sbilanciata e autocelebrativa. Insomma, uno dei suoi lavori più importanti e decisivi, senza alcun dubbio; ma anche la sua pellicola proteiforme per eccellenza. 

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