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Il filo nascosto

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il filo nascosto

di AlbertoBellini
10 stelle

locandina

Il filo nascosto (2017): locandina

 

Sono trascorsi poco più di sei mesi dalla prima volta in cui vidì questo film in sala. Nel frattempo le visioni sono aumentate, insieme alla difficoltà di ordinare i pensieri e costruire un commento di senso compiuto che potesse quantomeno rendere una vaga idea di ciò che è Phantom Thread (arrivato in Italia con il titolo Il filo nascosto), ultima opera scritta e diretta da Paul Thomas Anderson. Eppure, in casi come questo, non c’è il bisogno di tante chiacchiere. Per cui, senza ulteriori rigiri di parole, Phantom Thread è un capolavoro. Anzi, un miracolo. Uno di quegli eventi più unici che rari, in grado di scombussolare l’intero olimpo della settima arte (nel quale si è instantaneamente guadagnato un posto) e noi spettatori. Phantom Thread è il riflesso puro e limpido del cinema di Max Ophüls e Douglas Sirk; è Alfred Hitchcock che torna nel mondo dei mortali per riprendere la macchina da presa e regalarci una sua ultima creazione.

Non è mancato il ritardo della distribuzione in sala (due mesi rispetto all’uscita statunitense, un eternità per l’opera e il regista in questione) e non si è fatto mancare il classico ‘problema’ di fruizione, ergo il doppiaggio che attenua come al suo solito la bravura degli interpreti e, per l’appunto, il godimento totale del film. Un elemento che non può di certo passare inosservato, specie in casi come questo, ove di mezzo ci va nientepopodimeno che Sir Daniel Day-Lewis, un gigante che è andato ben oltre al concetto stesso di attore. Il suo Reynolds Woodcock è un personaggio tanto splendido quanto discutibile: arcigno, introverso e misantropo, ma un’artista, fra i più rinomati della Londa anni ’50. Egli sembra vivere esclusivamente per la sua mansione: la sartoria. Il suo stile peculiare è riconosciuto e desiderato. Ogni fanciulla facente parte dell’alta borghesia vorrebbe indossare un suo abito. Senz’altro un uomo complesso e per questo affascinante, imprevedibile, controllabile pressappoco solo dalla sorella, sua ‘tale e quale’, Cyril, con la quale gestisce il suo atelier. Vivono la loro esistenza insieme, nel mentre Reynolds si circonda di belle donne le quali, sentitesi ignorate a causa della sua predilezione per il lavoro, lo abbandonano. Finché un giorno Reynolds, recatosi in campagna per una pausa, incontra Alma, una giovane cameriera che viene letteralmente rapita dal suo fascino. Il sentimento sembra essere ricambiato: Reynolds la desidera come propria modella e musa ispiratrice, un desiderio che va oltre il carnale, tanto da portarla a vivere con sé nell’atelier, dove viene sin da subito osteggiata da Cyril che tuttavia, col tempo, si affeziona a quella che inizialmente sembrava essere l’ennesima conquista del fratello. Ciò nondimeno, Alma ha sin da subito a che fare con la personalità complicata di Reynolds, che arriva persino ad umiliarla durante una cenetta romantica organizzata dalla stessa per fare una piacevole sorpresa al compagno. Alma però non è come tutte le altre; lei ama Reynolds e pretende di essere amata. Pianifica così una ‘piccola’ vendetta: avvelenare il burbero uomo con un estratto di funghi velenosi. Reynolds, vittima dell’intossicazione, muta inevitabilmente se stesso, tra febbre e allucinazioni, durante le quali vede lo spettro della persona più importante della sua vita: sua madre, con indosso il primo abito da lui creato. Alma si prende cura del compagno, che la ama e la venera solo sino al momento della guarigione. Inizia e si protrae così un circolo vizioso di amore malato e odio romantico, nel quale Reynolds accetta la relazione e il continuo alternarsi di salute e malattia. Lei immagina un futuro sereno con un figlio, ma lui non cambierà mai la propria persona, e così l’episodio di avvelenamento si ripeterà, probabilmente per tutto il corso della loro vita.

 

Ci aveva lasciati con quella meraviglia di Vizio di forma; a 11 anni da Il Petroliere, opera titanica che lo ha definitivamente consacrato come uno dei più importanti cineasti della storia del cinema, Paul Thomas Anderson prosegue il suo percorso di (psico)analisi dell’uomo e delle sue ossessioni. Se nel dramma dedicato a Robert Altman, precursore massimo di Anderson, Daniel Plainview era tormentato dalla sete di potere, dal Dio denaro nato in quegli anni con l’avvento del capitalismo in America, e in The Master Freddie Quell era alla ricerca del proprio io smarrito con lo scoppio della seconda guerra mondiale, in Phantom Thread c’è il rapporto tra uomo e vocazione, e tutto ciò che ne può derivare quest’ultima. Non solo, Anderson con la sua solita egregia perizia pone lo sguardo tra artista e musa, tra chi l’arte la crea e chi la nobilita; un’artista senza una musa non è nulla, come una musa senza un’artista. I due soggetti devono convivere, instaurare un legame e amalgamarsi, quasi a divenire un singolo individuo. Si viene a creare così un ambiente singolare, come quello in cui vivono Reynolds, Alma e Cyril, i quali formano una triade d’acciaio, indistruttibile e non scomponibile, poiché ogni membro è futile se isolato dagli altri. Prendendo in esame Reynolds e Cyril, per esempio, il rapporto fra i due Woodcock è anch’esso articolato e presenta più facce: nonostante sia un uomo adulto, Reynolds è perduto senza la sorella che ama e al contempo quasi odia, come se fosse lei la causa del suo essere scontroso e imprevedibile; ma Cyril è famiglia ed è una sorta di ancora di salvezza che lo tiene legato alla madre, della quale porta sempre con sé una ciocca di cappelli, custodita nella fodera della giacca. «Si può cucire ogni cosa nella stoffa di un abito»… anche l’amore? Possiamo cucire su di noi l’amore, nella speranza che quest’ultimo non ci abbandoni mai? È un po’ ciò che Reynolds ha pensato e fatto prima con la propria mamma (Anderson va a toccare inequivocabilmente Freud e il Complesso di Edipo, dopotutto non possiamo sapere quanto oltre si spingesse l’amore del figlio per colei che lo ha allevato e cresciuto), come se volesse redimersi per un peccato nei suoi confronti, e poi con Alma, l’unica donna che sia mai riuscita a contrastare la sua filosofia dell’anti-matrimonio per cui ‘non ci si può sposare se si confeziona abiti’. Phantom Thread è dunque anche un film sull’amore, visto con un’ottica diversa, la quale non può che suscitare punti interrogativi nello spettatore: è davvero amore quello tra Reynolds e Alma? Ognuno lo può vedere come desidera, ma indubbiamente è perversione, la quale è – in parte – un ossessione, non per il sesso ma per quel rapporto tra artista e musa citato poc’anzi che non ha capo né coda. È perversione perché, citando un noto critico, restare insieme uniti e non lasciarsi è la più grande fra le perversioni. Phantom Thread è a sua volta perversione, come lo è il cinema. E di cinema in Phantom Thread, ce n’è davvero tanto. C’è talmente tanto Hitchcock (soprattutto quello del periodo britannico) al suo interno che si resta basiti; dalla forte base di Rebecca - la prima moglie alla macchina da presa che si muove delicatamente tra i personaggi in scena (oltreché dall’uso delle luci e quindi della fotografia, curata anch’essa da Anderson), da un’inquadratura che richiama immediatamente Psycho al modo in cui Anderson gioca con la tensione e la suspance, di cui il buon Alfred ne era il maestro – faccio notare inoltre un particolare curioso: Woodcock/Alma, Hitchcock/Alma (moglie e storica sceneggiatrice e montatrice del regista britannico). È un film che avrebbe adorato, sviscerato, per il quale avrebbe forse addirittura provato invidia. Phantom Thread è un film potente, energico ma allo stesso tempo gracile, come il suo stesso protagonista, un Daniel Day-Lewis che lascia ancora una volta sconcertati, per la sua immane bravura, per il suo porsi di fronte alla macchina da presa, per la sua misteriosa capacità di rendere unico e irripetibile ogni singolo sguardo, ogni singolo movimento del capo o delle mani. Accanto a lui, quella che è senza dubbio alcuno l’attrice rivelazione dell’anno, Vicky Krieps (Alma), capace di tenere testa a Lewis con la sua grandiosa performance, e Lesley Manville nel ruolo di Cyril. C’è poi una colonna sonora meravigliosa e talvolta opprimente, composta da Jonny Greenwood (alla sua quarta collaborazione con Anderson), squisita ciliegina su una torta praticamente perfetta, con la quale ci si dovrà confrontare per tutti gli anni a venire, proseguendo la riflessione su Reynolds, Alma e la loro relazione. Forse sono solo una coppia di matti autolesionisti, o forse sono coloro che meglio hanno compreso l’amore. Chissà. Nel frattempo ringraziamo ancora una volta il genio di Paul Thomas Anderson e Sir Lewis (sperando che ritiri nell’immediato la volontà di abbandonare la recitazione), vivendo e rivivendo la sconcertante bellezza di Phantom Thread – quest’altro dedicato alla memoria di Jonathan Demme –, che si è addentrato leggiadramente nel cinema e nel mio cuore, come un filo nascosto.

 

Vicky Krieps, Daniel Day-Lewis

Il filo nascosto (2017): Vicky Krieps, Daniel Day-Lewis

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