Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
In fondo siamo fortunati: viviamo in un’epoca artisticamente floridissima. Come oggi diciamo “com’erano fortunati gli uomini di 200 anni fa, che poterono assistere alla messa al mondo dei capolavori di Beethoven, di Rossini, di Berlioz, di Schubert”, così, tra duecento anni, parlando di noi, diranno “com’erano fortunati quegli uomini che poterono assistere alla nascita dei capolavori di Tarantino, di Lynch, di Eastwood, di Paul Thomas Anderson”. Perché è inutile fare finta: Il filo nascosto (o Phantom Thread, in lingua originale) è un film dalla Bellezza inaudita. Parlo di Bellezza riferendomi a un verso di Rainer Maria Rilke, scritto nella prima Elegia Duinese, che contiene una tremenda verità: “il Bello non è altro che il Terribile al suo inizio”, e chiunque sia stato innamorato lo sa, poiché Il filo nascosto è una storia d’amore, e dunque una storia di morte, il cui immobile e suadente sentore si avverte sì dal primo all’ultimo fotogramma, ma espresso con una cura fotografica lussuosa e vivida, un’attenzione scenografica dalla perfezione viscontiana e una regia attentissima nel seguire i due protagonisti nel loro terribile viaggio d’amore, disperati e dispersi come viandanti invernali di Schubert, di cui, peraltro, viene usato il primo movimento del Trio op. 100 (Kubrick aveva usato il secondo in Barry Lyndon, che con questo film condivide un celato antivitalismo, oltre che una perfezione stilistica difficilmente eguagliabile), insieme ad altri brani del repertorio romantico, da Chopin a Berlioz.
Chiunque si appresti a guardare un film di Paul Thomas Anderson sa che deve essere disposto a perdersi, a vagare, a meravigliarsi di trovarsi in un luogo.
Il filo nascosto non fa eccezione, e i piccoli disorientamenti disseminati lungo la visione si sposano magnificamente sia con l’equilibrio perfetto di ogni singola inquadratura, sia con la maniacalità ossessiva di Woodcock, il sarto protagonista. Rompere questa maniacale aridità è ciò che tenta di fare Alma, riuscendo a far vivere il loro amore soltanto attraverso il veleno, cioè l’ombra della morte. Al di là della Bellezza, ecco di nuovo la morte. Ne La donna che visse due volte (o Vertigo) di Alfred Hitchcock, si tentava di sconfiggerla rimodellando una donna viva a immagine di una donna morta. In Phantom Thread, i due amanti si amano solo sulle soglie dell’oltretomba, divorati dalla malattia, a contatto coi fantasmi, così distanti dallo sguardo freddo e severo della sorella di lui o dalle coppie spensierate e allegre che ballano a una festa di Capodanno.
Se uno dei tanti geni del passato, cioé Richard Wagner, non avesse mai composto quel capolavoro notturno che è Tristan und Isolde, e il mito dei due eterni amanti avesse continuato a vivere nel mondo delle idee senza che nessun uomo gli desse carne, ci avrebbe di certo pensato Paul Thomas Anderson, ma pur sempre nel 2018, in un’epoca totalmente diversa da quella in cui viveva il caro Richard, un’epoca - la nostra - nella quale Tristano e Isotta non sarebbero più in grado di scambiarsi il nome, ma soltanto un silenzioso, crudele, irresistibile, patologico amore.
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