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Rapsodia in agosto

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Rapsodia in agosto

di yume
9 stelle

Passato e presente si fondono nella corsa di nonna Kane tra nuvole d’acqua, poi di colpo l’urlo della tempesta tace e voci bianche cantano un gioioso lullabie mentre le immagini sfumano. Sul ricamo degli ideogrammi dei titoli di coda si distende lo Stabat Mater.

Hibakusha sono i “sopravvissuti” all’atomica di Hiroshima e Nagasaki, ma in giapponese il significato del termine è più complesso, “persone affette dall’esplosione”.

L’esile e curva nonnina Kane di questo penultimo film di Kurosawa è una sopravvissuta, ma ha perso il marito, era a scuola quel mattino e sparì in un lampo di fuoco con tutti i suoi ragazzi.

Tornano alla mente le parole di Primo Levi “Nulla rimane della scolara di Hiroshima,ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli.”

A ricordare il luogo c’è ora un sacrario di lamiere attorcigliate e scheletriche e si sta avvicinando il 9 agosto di quarantacinque anni dopo.

Il plot del film è semplice, quasi disadorno, raccolto nella sua essenzialità intimista, concede poco alla drammaturgia e sa di meditazione e preghiera.

Il film è fatto soprattutto di colori (stupenda la fotografia di Takao Saito e Masaharu Ueda) e di pochi, intensi richiami sonori. Alle nenie funebri (i soutra), che riecheggiano a tratti con timbri profondi e cantilenanti nel tempietto agreste, immerso nel folto di una vegetazione estiva che esplode con tutte le tonalità del verde, Kurosawa fonde le note dello Stabat Mater di Vivaldi, i timbri vocali dei Lieder di Schubert e giocosi Lullabies di Shin-Ichiro Ikebe, grande collaboratore di Kurosawa già in Kagemusha.

Lo strimpellare stonato del vecchio harmonium di casa crea il giusto contrasto e riporta al clima sereno di quattro ragazzi in vacanza dalla nonna.

I genitori sono ad Honolulu per riagganciare rapporti con il ramo ricco e americanizzato della famiglia, trapiantato lì nel 1920 dal vecchio e ultimo fratello in vita di Kane, Suzujiro.

Il patriarca è malato e vorrebbe rivedere la sorella prima di morire, i nipoti sarebbero felici di partire, hanno visto foto magnifiche inviate dai genitori, entusiasti della fastosa villa dei parenti alle Haway, ma Kane vuol aspettare l’anniversario, poi forse partiranno. 

Questi adulti, significativi esemplari di una generazione post-bellica abile nelle rimozioni, non raccontano della tragedia famigliare ai parenti nippo-americani, sono cose ormai lontane e potrebbero rendere imbarazzante la prospettiva di future collaborazioni finanziarie con la prospera azienda di famiglia.

Nella casa di campagna di  Kane il tempo della vacanza estiva trascorre leggero, fra giochi e cene attorno alla nonna discreta e affettuosa che racconta storie magiche e storie vere, e gli occhi dei ragazzi si aprono per quella curiosità innocente che li porta a vedere l’essenza profonda delle cose.

Kurosawa segue con simpatia questo affiatato quartetto che percorre i luoghi dell’orrore con lo sguardo di chi ora sa e non accetta la rimozione. Il dolore non l’hanno vissuto ma sanno ascoltare chi ne fu testimone, e quando tornano i genitori la distanza fra i loro mondi è segnata.

Un telegramma spedito alle Haway dal nipote più grande per dire che arriveranno con la nonna dopo l’anniversario della bomba  mette le cose in chiaro con i parenti lontani, e così arriva il giovane Clark, il nipote americano, che percorre i luoghi della memoria e s’inchina di fronte a Kane.

Un lied di Schubert cantato dai ragazzi commenta la scena con le parole di Schiller “E il ragazzo vide la rosa fulgida e solitaria e ne restò affascinato”.

Nel tempio della preghiera Clark chiede allo zio di tradurgli una scritta grande sul muro: “Nell’aldilà saremo ancora uniti”, mentre una fila di formiche segna una scia che si arrampica sullo stelo di una splendida rosa rossa.

Una sequenza che facilmente poteva macchiarsi di enfasi retorica diventa invece un delicato quadretto, dove convivono semplicità e gentilezza, senso della storia e canto della pietà. La scelta di Richard Gere nella parte di Clark è convincente, non sembra un tributo allo star sistem,come qualcuno ha osservato, dopotutto a 80 anni suonati si arriva anche per permettersi indipendenza e libertà di scelta!

«A ottant’anni un uomo ha soprattutto il compito di dire la verità, di trasmettere le sue esperienze agli altri» ha ripetuto più volte Kurosawa, e questo film è testimonianza di un dolore mai rimosso e di una visione del mondo già in tanti modi cantata in passato con straordinarie variazioni tematiche (Vivere, Cane randagio, L’angelo ubriaco, Bassifondi, Dodés ka-Dén), è espressione delle idealità più urgenti del suo mondo poetico, sintetizzate nella formula uomo-natura-storia, è un invito a non dimenticare rivolto senza proclami e senza accuse (“Ho odiato la guerra, non gli Americani” dice nonna Kane).

La sequenza finale, con la corsa nell’uragano della donna con l’ombrellino rovesciato, figurina piegata dal vento inseguita dai nipoti che gridano il suo nome, ha la bellezza visionaria del mondo di Sogni.

La notizia della morte improvvisa del vecchio Suzujiro, fratello che non ha più rivisto, la fa sentire colpevole per quel viaggio non fatto, la morte torna ancora a coglierla impreparata, come quel giorno, la sua mente vacilla e, come quel giorno “….le nuvole sono le stesse nel cielo” .

Bisogna correre verso Nagasaki, oltre le colline da cui si alzò quell’occhio tremendo, il giorno del grande lampo, e poi non ci fu più nulla.

Passato e presente si fondono in quella corsa tra nuvole d’acqua, poi di colpo l’urlo della tempesta tace e voci bianche cantano un gioioso lullabie mentre le immagini sfumano.

Sul ricamo degli ideogrammi dei titoli di coda si distende lo Stabat Mater.

 

 

 

 www.paoladigiuseppe.it

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