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Ninna Nanna

Regia di Dario Germani, Enzo Russo vedi scheda film

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La recensione su Ninna Nanna

di barabbovich
2 stelle

Per chi non avesse avuto l'occasione di leggere il best seller della sociologa israeliana Orna Donath, Pentirsi di essere madri (Bollati Boringhieri, 2016), il film di Dario Germani ed Enzo Russo, prodotto sotto l'egida di Tonino "egone" Abballe, avrebbe potuto costituire un buon viatico per affrontare il tema della negazione del senso di maternità senza tutte le incrostazioni tabuizzanti che da secoli si porta dietro. Il condizionale è d'obbligo perché il film dei due semiesordienti (proprio con Abballe, Germani aveva girato Quel venerdì 30 dicembre) è uno dei pasticci cinematografici più imbarazzanti che, negli ultimi tempi, ci abbia consegnato il cinema italiano. La vicenda è ambientata in Sicilia, tra Gibellina e Selinunte. Anita (Inaudi) ha appena concepito la piccola Gioia, ma da subito si sente incastrata dal suo ruolo di madre: le attenzioni sono tutte per la neonata, il sesso diventa un ricordo lontano, la bellezza (?) sfiorisce. Che la depressione post-parto sarebbe deflagrata potentemente era chiaro già durante la gravidanza: la sigaretta sempre accesa e il gomito spesso alzato ne erano delle inequivocabili avvisaglie. Da lì a scordarsi la bambina nell'auto rovente, o a lasciare il gas acceso in casa il passo è breve.
Germani e Russo inanellano con infallibile precisione tutti i luoghi comuni del caso, sottolineano con didascalie che sono quasi un'offesa allo spettatore qualunque passaggio diegetico e infarciscono la trama con un rivolo narrativo sull'integrazione degli immigrati che diventa una zona filmica a sé stante, completamente fuori contesto. Così come fuori contesto sono la protagonista, una Francesca Inaudi leziosissima, tutta smorfiette e faccine appese, la 65enne Guia Jelo, stupidamente invecchiata con un ridicolo parruccone, il marito della protagonista Fabrizio Ferracane, fedele interprete del ruolo di padre e marito soprattutto nelle ultime quattro lettere del cognome, e persino il sempre simpatico Nino Frassica, che deve avere scambiato il set per lo studio di Quelli della notte:  per poco non lo sentiamo dire anche "nanetti", "è uguaglio" e "Sani Gesualdi". Ma il peggio sono la colonna sonora, che più invadente non si potrebbe, il potpourri di stili con tanto di siparietto psichedelico, inserti da un documentario del personaggio di Frassica, corredato dall'immigrato dell'Africa nera che intona l'inno di Mameli e la scena scult da mandare a futura memoria per generazioni e generazioni: quella di Maria Rosaria Omaggio che si presenta col suo mascherone incipriato per un ruolo ridicolo da mamma cattiva che spiega in maniera che più corriva non si potrebbe l'origine psicologica del malessere della neomamma.

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