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Suspiria

Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film

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La recensione su Suspiria

di Spaggy
9 stelle

Cosa abbia spinto Luca Guadagnino, il nostro regista più americano, a prendere in mano Suspiria, uno dei capisaldi della filmografia di Dario Argento è presto detto dalle note di regia: da bambino era rimasto colpito dal manifesto prima e dal fatto di non aver potuto vedere il finale in televisione qualche anno dopo perché i suoi genitori lo mandarono a letto presto. Chiarisce anche che il suo lavoro non è un remake ma una cover: chi è avvezzo di musica sa che una cover non presenta gli stessi arrangiamenti dell’originale ma propone qualcosa di nuovo che, a grandi linee, omaggia la base di partenza. Per dirla in maniera più facile, anche le cover che mettiamo ai nostri cellulari non sono delle copie della custodia originale. Sarebbero del resto, inutili.

Guadagnino, quindi, prende la sceneggiatura di Dario Argento e Daria Nicolodi e la modifica a suo gusto, proponendo una sua versione di Suspiria che, mischiando le carte sul tavolo, si spoglia della sua dimensione prettamente horror per assumere contorni differenti. È straniante vedere la storia sullo schermo modificarsi pian piano e divenire qualcosa di totalmente inedito, a partire dall’ambientazione. Guadagnino colloca la sua storia nel 1977, anno in cui il primo Suspiria uscì nelle sale italiane. La scelta non è casuale: ha voluto a suo modo sottolineare quale fosse il clima sociopolitico di quel periodo. I personaggi poi si muovono a Berlino e devono fare i conti con le conseguenze del terrorismo generato dalla banda Baader Meinhof: la Storia riempie gli angoli dell’opera di Guadagnino costantemente, sia attraverso i dialoghi sia attraverso le immagini mostrate alla televisione o i resoconti dei radiogiornali. Addirittura, fa in modo che rientri all’interno della sua sceneggiatura dalla porta principale: Patricia, una delle ragazze accolta nella prestigiosa accademia di danza di Helena Markos, è sospettata di far parte della Raf nel momento in cui scompare misteriosamente senza lasciar traccia.

Dakota Johnson

Suspiria (2018): Dakota Johnson

 

Patricia era in cura presso uno psichiatra, l’anziano dottor Josef Kamperer che, seppur quasi sordo fisicamente, riesce a sentire i rumori che vengono dall’anima tormentata della giovane. Ciò lo spinge, tra un ricordo della moglie deportata e l’altro, a interessarsi dell’accademia, dove è da poco giunta dagli Stati Uniti la promettente Susie. La scomparsa di Patricia e l’arrivo di Susie avvengono in contemporanea e non passa molto tempo prima che la seconda prenda il posto della prima nel cuore dell’istitutrice, madame Blanc (ballerina e coreografa, celebre per aver creato un difficile numero chiamato Volk), e poi in quello delle streghe che governano il posto, che vedono in lei la perfetta candidata al rituale, qualcosa di cui tutte le amministratrici e governanti del posto sembrano essere a conoscenza. Pian piano, gli inganni, gli intrighi e le macchinazioni in gioco prendono forma e danno vita a un puzzle in cui entrano in gioco tre figure quasi ancestrali (Mater Tenebrarium, Mater Lacrimarium e Mater Suspirorium) la cui soluzione arriva inaspettata nel finale, lontanissimo anni luce da quello argentiano.

Suddiviso in sei capitoli e un prologo (più una scena che arriva dopo i titoli di coda), Suspiria è in primo luogo un film di inquadrature, movimenti di macchina e musica. Esemplari a tal proposito appaiono un paio di scene, a cominciare da quelle in parallelo in cui si mostra da un lato le capacità di Susie e dall’altro quello che accade a Olga, una delle ragazze che “lasciano” la compagnia, o da quella in cui, per un esercizio, madame Blanc copre gli specchi muovendosi come la locomotiva di un treno pronto a distruggere tutto ciò che trova al suo passaggio. I movimenti di macchina sono sempre fluidi e non si lasciano prendere né dalla concitazione delle scene né dalla voglia di strafare (un unico difetto, se vogliamo, si trova solo nel finale quando il troppo rosso in scena rischia di rendere opache le fredde e fassbinderiane immagini). La musica di Thom Yorke, leader dei Radiohead, puntella ogni momento saliente e avvolge con la sua malinconica e onirica armonizzazione, rotta solo dalle due grandi coreografie che nel segno del sangue, figurato o reale, segnano la vicenda.

Ogni capitolo, denominato atto, è caratterizzato da un titolo differente (1977, Palazzo di lacrime, Prendere in prestito, Prendere, Nella casa della madre e Suspirorium, più l’epilogo Una pera a fette) e da un crescendo delle prove attoriali: Tilda Swinton, attrice feticcio del regista, è sempre all’altezza delle aspettative mentre la vera sorpresa è Dakota Johnson. Celebre la trilogia delle Sfumature, la Johnson trova finalmente un ruolo che le permette di mostrare la sua tempra e le sue capacità: impegnandosi in prima persona nelle coreografie, è un mix di Natalie Portman in Cigno nero e, curiosamente, di Jennifer Lawrence in Madre!. Il secondo riferimento, tra l’altro, viene spontaneo per via di un’infelice battuta della sceneggiatura.

A differenza del Suspiria di Argento, ci troviamo di fronte a una protagonista consapevole del suo ruolo all’interno dell’accademia (Io sono chi sono, dirà durante uno dei tanti incubi notturni infusi da madame Blanc), sempre padrona dei propri passi e mai remissiva o accondiscendente. “Il confine tra amore e manipolazione è labile”, sentenzia il dottor Klemperer ma è difficile stabilire nel film di Guadagnino chi manipola chi per via di un eccezionale ribaltamento del gioco delle parti. Che l’accademia sia un nido di streghe (lesbiche?) poi è chiaro sin dall’inizio e fortunatamente il regista evita ogni spiegazione. A far i conti con il senso di Colpa e di Vergogna sarà la Mater Sospirorium nel tempo (e nel sequel?) che verrà e non il regista, riuscito nell'intento di trasmettere la sua passione.

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