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Lunga vita alla signora!

Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film

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La recensione su Lunga vita alla signora!

di Peppe Comune
8 stelle

In un castello situato in alta montagna diversi esponenti dell’alta società si danno convegno per una cena di gala intorno alla figura venerata di una vecchia Signora. Tra i camerieri presi a servizio per la serata c’è Libenzio (Marco Esposito), un giovane studente di una scuola alberghiera che entra così in contatto con un mondo da sogno. Dopo la fase di insegnamento delle regole dell’etichetta che ogni cameriere deve rigidamente osservare, inizia la cena con l’arrivo dei commensali e, per ultimo, dell’influente signora. La cena è l’occasione per ognuno degli invitati di prendere posizione nelle grazie della Signora, che parla solo con i suoi più stretti collaboratori e scruta tutti con degli occhialini. Una sola sembra totalmente estranea a questo mondo, una bellissima ragazza venuta insieme al padre. Libenzio non gli toglie gli occhi di dosso e spesso si perde nei suoi ricordi di fanciullo spensierato, come per misurare il contrasto tra le sue umili origini e lo sfarzo esagerato che lo circonda. Che ora gli sembra meno affascinante e più opprimente.

 

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La Signora

 

“Lunga vita alla Signora” di Ermanno Olmi è un apologo politico sul senso del potere, sulla sua perdurante autoreferenzialità, sulla sua sfuggente fascinazione. Un film costruito alla maniera solita del grande autore padano, che preferisce insinuarsi nei grandi temi più usando la pura descrittività dei gesti semplici che il piglio speculativo di discorsi articolati. Più raccontando in forma simbolica la realtà che aderirvi semplicemente.

Il Cinema ha spesso usato il momento della tavola imbandita per riflettere sulla crisi di valori e rappresentare in forma simbolica l’incontro-scontro tra diverse visioni del mondo. Per fare solo alcuni (e illustri) esempi, Louis Bunuel ne ha fatto un tema ricorrente della sua poetica dissacratoria (“L’Angelo Sterminatore”, “Il fantasma della libertà”, “Il fascino discreto della borghesia”), un modo per far risaltare l’ipocrisia benpensante della società borghese, di spogliarla di tutti i suoi orpelli superflui proprio in un momento cardine del suo stare in società, a tavola tra i suoi pari, quando è maggiormente intenta ad ostentare le sue meraviglie. Ne “La grande abbuffata”, invece, Marco Ferreri ne fa il simbolo di una rivincita sontuosa inferta contro l’egemonia incontrastata del potere costituito. Il cibo diventa metafora di una forma egoistica di godimento portata fino all’estreme conseguenze con consapevole ostinazione. Peter Greenaway, infine, in “Il cuoco, il ladro, sua moglie, l’amante” gioca sul contrasto tra il bello e il brutto, l’alto e il basso, la magniloquenza delle forme architettoniche con la trivialità della vulgata, per parlarci di un mondo in stato di latente putrefazione.  

Ermanno Olmi si muove in questo solco poetico per fare della sontuosa cena di gala della Signora un momento di riflessione sugli effetti immobilizzanti del potere e sulla sua imperitura conservazione, giocando sul confine tra la vita e la morte, tra le umili origini dei servitori e la ricchezza autocelebrata dei commensali. Sempre col suo modo sornione ed elegante di penetrare la realtà delle cose attraverso il Cinema, sempre con una messinscena raffinata che non si fa mai esercizio di stile fine a se stesso.   

La Signora del titolo è fonte di prestigio e di privilegio, cose da conquistare e da conservare, è la continuazione della vita agiata che continua dopo la sua fine. Va al di là del suo corpo scheletrico che a stento riesce a muoversi ma che sa imporsi con la forza della sua riconosciuta autorità. Un corpo che annuncia una prossimità alla morte che sembra durare da tempo imprecisato. E’ simbolo di un potere che sopravvive al suo immobilismo parassitario, venerato perché garantisce la perpetuazione dei privilegi di casta. Alla sua figura impenetrabile e misteriosa si deve l’ascesa sociale come la discesa agli inferi, la grazia di conservare le rendite di posizioni acquisite come la sfortuna di cadere in disgrazia. Ermanno Olmi fa emergere tutto questo rappresentando una cena di gala come se si trattasse di una cerimonia solenne organizzata per ribadire l’indissolubilità dello spirito corporativo, tra l’osservanza rigorosa delle regole del galateo e il carattere autoreferenziale dei suoi principi ispiratori, tra le movenze cadenzate dei camerieri e gli sguardi offuscati di commensali attempati. Si muove lungo la tavola imbandita per registrare in maniera discreta la sete di potere che alberga negli occhi dei favoriti della Signora, che anelano alla sua stessa capacità di sopravvivere alla morte.

Ad affrancare il film da un resoconto quasi “documentaristico” su tutta la fase organizzativa di una cena prestigiosa, sono due figure aliene rispetto a tutto il contesto. Una giovane ragazza arrivata al castello insieme al padre, un prestigioso notabile dell’alta società. Una ragazza di una “bellezza che può aprirgli ogni porta” (come le dice la signora), che Olmi ci mostra spesso mentre prende la mano del padre nella sua, un gesto di tenerezza che sembra sottintende uno stato di inadeguatezza rispetto al luogo in cui si trova. Poi Libenzio, che sceglie proprio la bella ragazzi per distrarsi dall’osservanza metodica delle sue incombenze. E’ il vero protagonista del film, e Olmi lo fa essere il contraltare perfetto alla Signora, il cameriere addestrato alle regole dell’etichetta da rispettare ad ogni costo che sembra volersi chiedere a chi serve tanta ostentata pomposità, a chi giova l’ossequianza acritica di questi rituali laici. Il ragazzo di umili origini che spesso si perde nei ricordi della sua fanciullezza contadina, caratterizzata da una semplicità che contrasta apertamente con il cerimoniale del castello. Un luogo che ad un tratto comincia ad apparirgli del tutto estraneo, e da cui fugge in una mattina dove tutto dorme, come per non rimanere mummificato in quell’idea di potere che la Signora incarna. Film da recuperare, come tutto il Cinema di Ermanno Olmi.

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