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Hong Kong Express

Regia di Wong Kar-wai vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Hong Kong Express

di Utente rimosso (PoorYorick)
10 stelle

Con Hong Kong Express lo scopo di Wong Kar-wai era quello di girare un film di poco conto, con il quale impiegare il proprio tempo durante una pausa lunga mesi dalle riprese di un altro film: La cenere del tempoLa storia appena abbozzata avrebbe dovuto prendere forma durante le riprese stesse del film. A causa del poco tempo a disposizione e degli impegni sia degli interpreti che dei membri della troupe, Wong Kar-wai gira frettolosamente anche scene che riescano a sussistere autonomamente, montandole tra loro in sede di post-produzione per dare un senso alla costruzione del tutto. Ne scaturisce un montaggio segmentato e brutale. 

Ciò nonostante, il risultato finale porta il regista cinese all’ attenzione internazionale, rendendolo celebre e facendo di Chris Doyle uno dei cameraman e dei direttori della fotografia più apprezzati e più imitati degli anni ’90Doyle conferisce alla pellicola un cromatismo esasperato e violento, caratterizzante l’impiego a mano della macchina da presa; l’opera assume così un carattere frenetico e sensibile che si fa espressione di una malinconia urbana. 

 

Urbana è pure la dimensione spaziale delle storie che prendono forma nel racconto, pervase di un romanticismo decadente e postmoderno in cui si muovono figure di anime solitarie, coinvolte in una danza spasmodica, sfiorandosi senza mai toccarsi.

Questa è una di quelle pellicole in cui più che la storia conta lo sguardo del regista,il suo personalissimo modo di raccontarci i personaggi. Non si cerca l’oggettività di un amore finito, ammesso che esista, si cercano le sensazioni e i dettagli, che sono loro a costruire il racconto. Potremmo parlare di un’estetica degli oggetti in tutti i film di Wong Kar-wai ma in questo, che segna anche il suo ingresso nel mondo del cinema occidentale, è più che mai presente e fondamentale.
Hong Kong Express è un film costruito e quasi interamente raccontato dai significati che il regista mette dentro agli oggetti, così barattoli di ananas che scadono diventano la prova ultima della fine di un amore, una canzone sentita sempre a volume alto (California Dreamin’ dei Mamas & Papas) diventa il sogno americano di una ragazza poco più che adolescente, saponette che si consumano e strofinacci bagnati diventano metafore della solitudine di un abbandono.
E la stessa Hong Kong, nella fattispecie il quartiere Chungking House, è protagonista del film perché è proprio la città il vero punto di unione tra le due storie. I personaggi si muovono inconsapevoli gli uni degli altri lungo gli stessi percorsi, si incontrano in un fast-food che diventa anch’esso simbolo e snodo di quella vita quotidiana che investe e divide a suo piacimento. Hong Kong è una metropoli dove ci si perde, dove la solitudine e lo smarrimento sono tali che l’identità dei due protagonisti maschili è ridotta a numeri: agente 223 e agente 663.
Il realismo con cui Wong Kar-wai restituisce l’immagine della metropoli è enfatizzato dal suo particolare stile formale e narrativo: una regia sperimentale e l’utilizzo della camera a mano trasmettono tutta l’instabilità emotiva dei suoi anti-eroi della solitudine, ugualmente i loro movimenti rallentati rispetto al caos della città servono al regista per collocarli nei loro microcosmi onirici piuttosto che nella realtà.

I quattro personaggi, nella prima parte un poliziotto in borghese (Takeshi Kaneshiro) lasciato dalla fidanzata e una misteriosa trafficante di droga (Brigitte Lin), e nella seconda un poliziotto in divisa (Tony Leung), anch’esso lasciato dalla fidanzata e una giovane cameriera di fast-food (Faye Wong), prendono la parola a turno intrecciando le loro storie le une alle altre e dando sfogo alla propria interiorità in significativi soliloqui o in maniacali abitudini.
I due episodi, separati solo apparentemente, poiché ciascun personaggio sfiora l’altro per pochi secondi, sono accomunati da un tempismo avverso: quando qualcuno è innamorato dell’altro, l’altro è ancora innamorato di qualcun altro e questo fa sì che le storie d’amore siano sempre senza fine e senza inizio.

Il tema del tempo, ricorrente nei precedenti e nei successivi film, troverà la sua massima espressione nel film 2046, realizzato dieci anni più tardi.
Hong Kong Express, girato durante una pausa dalle riprese di Ashes of Time, senza una sceneggiatura precisa, anticipa il successivo film del regista cinese Fallen Angels e vince a Cannes il premio per la miglior regia nel 1994.

«57 ore dopo mi sarei innamorato di quella donna», «6 ore dopo si sarebbe innamorata di un altro uomo»: un lampo, un flash che congela una frazione di secondo, un incontro istantaneo, uno sguardo fugace allo scattare di un orologio pubblico. La voce off che riflette, ricorda e anticipa. Hong Kong Express è costruito su flussi di coscienza, dove il tempo diventa una semplice funzione soggettiva, qualcosa di malleabile, può essere dilatato, espanso, rallentato, bloccato. Le linee temporali possono procedere in parallelo o intersecarsi fin anche contraddicendosi, o ammantandosi di ambiguità, come nella scena della prima parte in cui Faye, personaggio della seconda parte, si intravede uscire da un negozio con il pupazzone che prende per 663. Un gioco percepibile solo, e con molta attenzione, a una seconda visione del film, una situazione impossibile se i due episodi fossero temporalmente consecutivi. Ma non è detto che sia così e il raccordo tra le due parti, nel chiosco delle chef salad dove 223 collide con Faye lasciando il testimone a 663, potrebbe essere retrodatato rispetto al flusso narrativo. Wong Kar-wai frammenta, ingarbuglia il tempo andando ben oltre la manipolazione del tempo che il cinema ha sempre delegato semplicemente al montaggio. Hong Kong Express raggiunge l’apice di una cinematografia che persegue una poesia del tempo.

 

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