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Madre!

Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film

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La recensione su Madre!

di MarioC
8 stelle

Lasciate ogni speranza di verosimiglianza, o voi che entrate. Voi che varcate quella porta, al di là della quale troverete un campionario di paure, un rosario di attese e speranze, silenzi di morte e squarci di vita, il tempo che si rincorre e si fa circolare, teorie confuse dell’eterno ritorno, misoginia a pacchi, riflessioni (auto)critiche sull’arte e sul suo presunto potere salvifico, escursioni nella improvvisazione della poesia e sussurri sulla sua sostanziale inutilità (il poeta è un fingitore, per dirla con Pessoa. Nei suoi versi in memoriam si respira infatti il fardello insostenibile della retorica, la fatica che deve compiersi nel ricercare parole che si dissolveranno, fatte come sono di sostanza gassosa, oppure gli si ritorceranno contro, nel momento dell’ovvia Apocalisse). E non solo: incursioni in territori biblici (Caino e Abele, ma anche Adamo ed Eva e la loro devastante solitudine, l’Eden della casa che si fa kasbah di orrore e sangue), bignamini psicoanalitici (non sapremo mai se non, più o meno, a posteriori le ragioni del timor panico della dolce Jennifer Lawrence, né della anaffettività del personaggio di Bardem), richiami al passato che si fa ancestrale trauma (incendio, fuoco, sangue, cuore che batte da cui estrarre un solido in forma di diamante che funga da viatico, da luce ad indicare la strada; e ancora incendio, fuoco, sangue e così via. Morte, soprattutto, cui segue, inevitabilmente, la vita. La vita è una ruota di Luna Park, lo sappiamo). Invasioni di esseri umani come cavallette, il miracolo della maternità mentre intorno infuria una battaglia di zombies contrapposti a zombies, il figlio del Messia innalzato in cielo, adorato quale Messia e quale Messia condotto a morte repentina e inusitata. Perché un uomo misterioso sceglie di passare i suoi ultimi giorni in casa del suo scrittore preferito? Perché ha una foto di questi in borsa? Chi è? Chi è la sua scostante moglie?

 

Jennifer Lawrence, Javier Bardem

Madre! (2017): Jennifer Lawrence, Javier Bardem

 

Difficile razionalizzare, si diceva. Madre! è un’esperienza sensoriale che avvolge ed inquieta, respinge ed attrae, un delirio (girato alla grande, sia detto) di melassa e fiele, un pastrocchio di sentenze tonitruanti o mute (gli sguardi della moglie, senza nome come tutti i personaggi, persi nell’orrore di qualcosa che si nasconde in ogni angolo, in ogni silenzio, in ogni sguardo; ma anche la improbabile comunione di intenti tra lo scrittore ed il suo ospite, quella strana confidenza virile che sembra escludere gli altri, ed il mondo). La trama si avvolge su se stessa, e finisce (anzi riparte) da dove era iniziata. È la rappresentazione per immagini schizofreniche di una fine del mondo, forse della Fine del Mondo. La duplicità dell’essere umano quale (probabile) filo rosso di quello che, alla fine, può anche apparire il sogno masturbatorio ed autoreferenziale di un autore che gioca con lo spettatore, lo cattura e lo inchioda, ma anche lo ricatta e lo sgomenta. Una ronda per qualcuno disonesta ed inconcludente e che, tuttavia, tiene botta e non perde la sua malatissima capacità di fascinazione.

 

Jennifer Lawrence

Madre! (2017): Jennifer Lawrence

 

Tentando (e soltanto tentando, stante la improbità del compito) una lettura razionale, potremmo dire che Madre! è, tra le molte pieghe devianti, una riflessione satirica sull’arte e la solitudine. L’atto della creazione che, per sorgere, ha bisogno di un contorno (di un intorno) fatto di vuoto, morte, assenza, disperazione. L’ispirazione necessita di traumi, il sogno della comunione con il pubblico (con l’altro da sé) diventa incubo. Eppure è da quell’incubo, destinato a farsi realtà (una realtà che lo stesso artista ha contribuito ad inverare, dunque la scrittura soggiace a mere e terribili leggi deterministiche) che la parola può sgorgare, accontentandosi chi la compie di avere con sé (ma anche possedere, manipolare, piegare ai propri scopi indefettibilmente superiori) figurine sbiadite, destinate a recitare un ruolo, esaurito il quale possono tranquillamente tornare nulla, corpo inerte, fantasmagoria di ricordo, scorie di memoria. È soltanto un inganno che il poeta, nella quiete di una casa che la docile consorte sta mettendo su, non riesca a concepire nulla. E che un improvviso concepimento della moglie/finalmente madre (peraltro dopo una imprevista apertura all’esterno - la coppia di ospiti, quindi i numerosissimi convenuti alla veglia funebre -) gli ridia il dono dell’immaginazione. Bisogna aspettare, ed aspettando eliminare gli agenti estranei che inquinano la purezza dell’arte. Morte, solo la morte è il motore. Dalla morte si può ricominciare, con il bagaglio di esperienza acquisito. C’è vita oltre un cuore che si ferma, che urla gli ultimi battiti d’ali dell’amore innocente ed ingenuo (Ho bisogno di sentire ancora che mi ami: quanta letteratura può esserci in un sentimento reiterato in punto di morte?). C’è vita dove ritorni il silenzio, dove un “Amore!” pronunciato una mattina qualunque rimette le cose al loro posto (le cose tornano e si ripetono, ecco l’eterno ritorno, perché l’arte continuerà, tra le bombe, il sangue, il cannibalismo, essa stessa, forse, inconsapevole carne da macello).

Nessuno ha un nome, perché tutto è teatro e ciò che conta è solo il copione, ed il ruolo. Il poeta, la moglie (poi madre), l’ospite, sua moglie (già madre), i loro figli che si odiano. La massa indistinta del pubblico che invade il privato e, letteralmente, lo annienta. Una striscia di sangue che si insinua in luoghi ormai destinati (che paiono destinati) alla vita. I mille pezzi dell’amuleto da ricomporre su carta o arteria. L’amuleto che tornerà, estratto dal cuore, dall’amore, dalla vita che se ne va. Fiamme, terrorismo, un’agente letteraria che spara, uccide, difende il territorio ma è anch’essa una variabile impazzita, un surplus di inutilità. Gli occhi di Jennifer Lawrence, lucenti di una bellezza che sembra già sapere tutto (lei è l’Ispirazione, lei ed anche la sua morte); il sorriso torvo di Bardem; la tosse polmonare di Ed Harris; il fascino che non vuole sfiorire di Michelle Pfeiffer (ma è anche esso invisibile, un attributo che non interagisce, se non rimbrottando, guardando in cagnesco, suggerendo la via più comoda verso la fine). Un bambino quasi mai nato, il sogno di una madre, gli occhi di una madre (e, per molti, il film è, come la fantozziana Corazzata, una pazzesca cagata), un accendino volano del destino, propellente per altre pagine da scrivere. Questo è Madre! Che film è Madre!

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