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Maria per Roma

Regia di Karen di Porto vedi scheda film

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La recensione su Maria per Roma

di MarioC
6 stelle

Complicato cercare Maria per Roma; ancor più difficile, se non impossibile, per una Maria a Roma cercarsi e infine trovarsi. L’albero genealogico di Karen Di Porto ha radici nobilissime e screziate: affonda nell’humus vagabondo dei giovani di Ecce Bombo, cresce in territorio contiguo all’Estate Romana di Garrone, si stabilizza infine nelle peregrinazioni affannose di un Gianni Di Gregorio. Laddove questi si faceva tuttavia vessillifero di una romanità stanca ed indolente, la Di Porto (esploratrice in gonnella di quel set millenario ed irresistibile che è Roma) si consacra e si immola all’ipercinesia, si fa letteralmente trottola, rimugina, si autorganizza (male), si arrabbia, ci prova, dedica una giornata intera al (falso) movimento, alle speranze di palingenesi, infine si acquieta, si ferma, forse deve. A guardare l’acqua, benché sia chiaro che, a Roma, è il Tevere che guarda te e le tue stanchezze, mai viceversa.

 

 

Strano e leggero film d’esordio, Maria per Roma è un colorato e misurato omaggio al caos capitolino. Vi si respira l’aria di una Roma che pare addirittura senza traffico, che non sia quello delle sue facce, delle sue iconiche virtù, dei suoi bellissimi vizi. È un tour morettiano senza poesia, una sarabanda di incontri con l’altro nell’impossibile tentativo di stabilire regole di esperanto destinate ad essere infrante, è la rivendicazione e l’imposizione di un modo di essere (il palazzo è senza ascensore, perché qui siamo a Roma), la rappresentazione di un sottobosco di maneggioni buoni, produttori volpini, nobildonne annoiatissime (e senza il sense of humor che avevano, per dire, le vegliarde di Di Gregorio). Su tutto, la malinconia delle cose che non ci sono più e di quelle che ancora potrebbero essere: il padre morto giovane, il sogno del cinema che si perde al cospetto di bivi nemmeno intravisti (non c’è possibilità di compromesso, soltanto una luce che si spegne, qualcuno che la sa più lunga di te, che è più di te – lei è Daniela Virgilio e, allora, ubi maior dicevano quei latini che la sapevano lunga-). E poi, si diceva, le facce, campionario di fellinismi che Fellini non potrà più immaginare, accolita di accidiosi a spendere le giornate in teatri dell’assurdo che sono su palcoscenico ma anche e soprattutto su strada. L’attore che interpreta Gesù ma che anche, in regolare tenuta evangelica, si fa affittacamere, la di lui madre che a figlio ed amici non dà fiele lenitivo ma più prosaici e sostanziosi pomodori, il nobiluomo forse decaduto, prototipo del gagà che non ha orologi nè sveglie a limitarlo, i turisti, di ogni risma, estrazione sociale, disponibilità economica che, arrivati nella Città Eterna, fanno i conti con l’Attesa, che può essere prolungato ed elastico sgomento davanti alla Bellezza ma anche profonda incazzatura (si veda l’esilarante intermezzo con protagonista la famiglia sarda) per quella Maria che non arriva mai, in perenne ritardo, perché il Ritardo è uno degli articoli scritti a lettera di fuoco dalla Costituente Romana.

La sceneggiatura di Maria per Roma è esile e filiforme, si nutre di piccoli scarti, pensieri portati alle labbra, occhi che cercano senza mai trovare (anche la possibilità di un amore che alla fine, forse, qualche bagliore sull’acqua potrà benedire e certificare). Va anche detto che Karen Di Porto è attrice rivedibile ed espressivamente un po’ acerba. Tuttavia il film non disturba, fila via gradevole, tra sobbalzi ironici e conati di drammaticità che (siamo sempre a Roma) mai diventano rovesci di dramma. Tra le sue eteree volute può leggersi un ulteriore omaggio ad un Grande di Roma. Quando Maria penetra nell’appartamento destinato all'affitto e vi si sofferma per una doccia, una pomposa vestizione da attrice che già si crede consumata, quindi spacciandosi per la ricca e vezzosa padrona di casa, non vi sembra di vedere il Carlo Verdone che si inventa, per un istante, una nuova vita da Manuel Fantoni, quel nome che appoggia così bene?  

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