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L'intrusa

Regia di Leonardo Di Costanzo vedi scheda film

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La recensione su L'intrusa

di Peppe Comune
8 stelle

Giovanna (Raffaella Giordano) è un’operatrice sociale che gestisce un centro d’accoglienza in una zona alla periferia di Napoli. “La masseria” si chiama questo posto e si occupa di ragazzi d’età scolastica che vivono condizioni di vita particolarmente disagiate, un luogo sicuro in cui svolgere attività ludiche ed educative anche grazie al sostegno della scuola. “La masseria” è un centro molto ben visto dalle mamme dei ragazzi, che così tengono i propri figli lontani dai tentacoli della camorra. Ma l’equilibrio idilliaco costruito al suo interno entra in pericolo quando Giovanna risponde presente alla richiesta di aiuto di Maria (Valentina Vannino), la moglie di Amitrano (Carmine Paternoster), un importante boss della zona ricercato dalla polizia. Maria ha con sé due figlie, una appena nata e Rita (Martina Abbate), una bambina molto sveglia che Giovanna cerca di far entrare in relazione con i suoi coetanei. Ma sia per le donne del quartiere che per l’istituzione scolastica, questo fatto rappresenta un elemento pericolo per la stabilità degli altri bambini.

 

 

Valentina Vannino

L'intrusa (2017): Valentina Vannino

 

   

“L’intrusa” di Leonardo Di Costanzo è un film che aderisce in maniera molto naturale alle esistenze claudicanti di ragazzi difficili, fagocitati da un ambiente sociale dove la camorra, prima ancora di essere un pericoloso aspetto criminale, è un fenomeno culturale. Un’ opera di nitida bellezza che usa la lingua parlata come un consapevole strumento di analisi sociale. Protagoniste sono Giovanna e Maria, due donne che si guardano allo specchio, l’una con l’intento preciso di offrire aiuto, l’altra col desiderio di riceverne. Lo scenario in cui si svolge il tutto è un centro di accoglienza, un luogo che si pone come una zona di confine tra l’assenza duratura dello Stato e la presenza invasiva dei clan della camorra, tra la vita vissuta e la vita negata. Tra il linguaggio adulto imparato in fretta dai bambini e la loro infantile voglia di tenerezza.  

Come ne “L’intervallo”, Leonardo Di Costanzo si mostra particolarmente bravo a parlarci della complessità di un territorio senza mai mostrarcene la vastità, a evocare i tentacoli multiformi del mondo di fuori pur rimanendo ancorato alle cose che succedono nel mondo di dentro. Detto altrimenti, l’autore napoletano si conferma abile nel fare dell’unità di luogo un microcosmo autosufficiente capace di evocare condizionamenti culturali, implicazioni antropologiche, squarci etnografici. Con la sola forza delle immagini applicate alla sceneggiatura (del bravo e collaudato Maurizio Braucci), individuando il giusto equilibrio tra le parole che occorre dire e le inquadrature più adatte che bisogna fare.

Le colpe dei grandi si riflettono sui loro figli, anime impure che nascono con le stimmate del peccato originale per il solo fatto di crescere in un contesto urbano dove la devianza sociale è la strada più praticata anche perché è quella più breve. I ragazzini che frequentano il centro d’accoglienza arrivano con un bagaglio d’esperienza vissuta molto più grande della loro età. Eppure provano piacere a giocare con i colori, a costruire pupazzi, a riciclare cose in disuso, a costruirsi amici immaginari, insomma, a fare quello che dovrebbero fare per natura, ma che non fanno in maniera continuata per istintiva adesione al loro milieu d’appartenenza. In tutto questo, assolutamente centrale è la figura di Rita, una bambina che parla e agisce come una più grande, come il frutto naturale di un mondo che costringere a crescere molto più in fretta del previsto. In una sequenza tanto bella quanto efficace nella sua disarmante semplicità, viene ripresa mentre fa la “donnina” che già sa il fatto suo. Poi è come se si addolcisse tutta d’un tratto alla vista di un comunissimo panino con la cioccolata. Come una normale bambina che attende solo di fare lo spuntino del pomeriggio. È solo un breve accenno, un luccichio degli occhi a riflettere un piacere fanciullesco, un desiderio esaudito, ma sufficiente a fare di una sola inquadratura l’elemento analitico che serve più di mille parole a chiarire la consistenza narrativa di ciò che esiste al di là del centro d’accoglienza.

Se per tutti gli abitanti del quartiere Maria è il problema che ha rotto gli equilibri consolidati della comunità, per Giovanna rappresenta l’occasione per dare un senso più pieno alla sua opera, che è quello di servire chi è rimasto più indietro lungo la strada dell’apprendimento alla vita, di dare aiuto a chi l’aiuto non lo sa chiedere. Il centro di accoglienza che dirige non può limitarsi ad isolare dei bambini a rischio dalla contiguità di pericoli incombenti, ma anche di educarli attraverso le buone pratiche all’idea consapevole che chi è maggiormente esposto al pericolo ha anche più bisogno di essere accolto. Quello che Giovanna capisce più di chiunque altro è che il vero antidoto contro la cultura camorrista sta nel saper leggere le richieste di soccorso dentro occhi incattiviti dalla paura. Quello che Giovanna ha appreso dalla sua esperienza di operatrice sociale, è che Maria incarna il contrasto tra ciò che si è in quanto prodotto di un sistema di cose che genera un suo linguaggio, un suo codice morale, una sua mappa cognitiva, e ciò che si vorrebbe essere se solo si riuscisse ad andare oltre e pensare ad altro. Il finale (un po’ felliniano) ci restituisce una Giovanna certamente contenta del clima festoso che si respira nella comunità, ma anche consapevole che è sempre una sconfitta anteporre allo spirito di inclusione rivolto a chi solo con gli occhi ha saputo esprimere l’urgenza di essere aiutato, lo spirito di corpo che tende ad espellere ogni intrusione indesiderata.

“L’intrusa” è un film che vive di ellissi narrative, di accadimenti minimali, del naturale scorrere delle “ordinarie” vicende di quartiere, di slanci emotivi sottomessi, di sfumature emozionali. Tutte cose che sanno farsi racconto di un disagio, che trasmettono l’urgenza di marcare la differenza tra un ‘idea di comunità pensata come una sorta di zona franca immunizzata dal contesto sociale che la circonda, e un’altra che la concepisce come una trincea a cielo aperto, a tal punto assorbita dalla realtà sociale con cui interagisce da voler coscientemente sposarne tutti i rischi potenziali.

Leonardo Di Costanzo ha fatto tutto questo rimanendo legato ad un modo trattenuto di far esprimere i suoi attori, senza mai sovraccaricarli di orpelli inutili, di comportamenti superflui, facendogli parlare la sola lingua che conoscono e assumere gli unici comportamenti possibili. Ha un modo di aderire alla realtà teso ad interpretarla senza fornire giudizi morali, con uno sguardo etico capace di raccontare il disagio sociale in una maniera rinnovata. In campo c’è tutto quello che ci serve per capire godendo della visione, fuori campo rimane quello che è necessario per riflettere. In soli due lungometraggi (il non più giovane), Leonardo Di Costanzo mi si è impresso come un autore bravo ed importante. Spero che continui. Ottimo Cinema.           

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