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I Am Not Your Negro

Regia di Raoul Peck vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su I Am Not Your Negro

di maurizio73
8 stelle

Documentario sulla storia di un saggio mai completato, come sua ideale pubblicazione in altre forme, è una potente riflessione che si addentra nel cuore nero di un paese bianco che ha lasciato sconsideratamente in sospeso gli annosi strascichi di un vergognoso retaggio coloniale con cui fare violentemente i conti.

Ideale comple(ta)mento filmico dell'incompiuto saggio autobiografico Remember This House di James Arthur Baldwin in memoria dei tre amici e attivisti per i diritti civili afroamericani uccisi negli anni '60  (Evers, Malcom X e M.LKing Jr); ma anche è soprattutto una lucida e profonda riflessione sulla natura della questione razziale americana e sulle sue inevitabili conseguenze sul futuro del Paese.

 

locandina

I Am Not Your Negro (2016): locandina

 

L'ora più segregazionista della vita americana è il mezzogiorno domenicale

 

Nel segno di una vocazione registica che ha sempre avuto al centro dei suoi interessi meccanismi del potere e questione sociale (non solo autoctona), il regista haitiano Raoul Peck concepisce un documentario sulla storia di un saggio mai completato (in realtà appena abbozzato) come una sua ideale pubblicazione in altre forme, strutturando i quattro capitoli di una voce narrante (quella dell'attore Samuel L. Jackson) come il flusso di coscienza dell'inttellettuale di Harlem James Arthur Baldwin che ripercorre le vicende che lo hanno coinvolto come attivista e ideologo del movimento per i diritti civili, compreso l'assassinio dei suoi tre maggiori rappresentanti, e intercalandola con inserti provenienti dal suo intervento televisivo al The Dick Cavett Show (1968), dal dibattito all'Università di Cambridge (1965), repertori d'archivio e citazioni filmiche. Ne esce una potente riflessione che investe l'ampio spettro delle tematiche care all'autore e che, partendo dalla responsabilità di un intellettuale da tempo esule in Francia che sente non solo il dovere, ma il diritto di intervenire direttamente, si addentra nel cuore nero di un paese bianco che ha lasciato sconsideratamente in sospeso gli annosi strascichi di un vergognoso retaggio coloniale, analizzandone non solo le ragioni storiche e sociali (la fine della schiavitù e la mancata epurazione della sua ormai inutile manovalanza di importazione) ma anche quelle più intime e profonde legate alla particolare natura psicologica e culturale delle sue repressioni puritane.
I tre approcci complementari dei martiri: il pacifista, il belligerante ed il riflessivo sono condensati e riassunti nelle considerazioni di un autore la cui opera non ha mai veduto la luce eccetto che nella forma pienamente compiuta e densa di questo straordinario documentario di sopravvivenza della memoria e di vitalità del messaggio. Nell'excursus storico sul fallimento annunciato dei movimenti degli anni '60, Baldwin si colloca naturalmente nel solco di quello che si può ossimoricamente definire un pacifismo belligerante, laddove la spietata lucidità sulla persistenza e la gravità del problema razziale si accompagna alla responsabile consapevolezza di una indissolubile legame che lo unisce alle sorti future dell'intera nazione americana e quindi destinata un giorno (non ora né fra 40 anni, né con Kennedy né con Obama) a risolversi in una inevitabile e profetica pacificazione sociale.
Se questo è il punto centrale della ricognizione su una tema che non ha mai smesso di essere attuale (a un secolo esatto dal Massacro di Tulsa), è la molteplicità delle spigolature con cui si articola nel documentario che ne fornisce un quadro illuminante, illustrando con i numerosi esempi di suoi inserti cinematografici il profondo radicamento delle sue ragioni nel suo immaginario culturale da esportazione e nel potere insinuante delle suo abusato lessico metaforico. Non solo quindi la negazione antropologica del diritto alla difesa della popolazione nera ma anche e soprattutto la negazione del principio di una appropriazione di quella parte dei modelli sociali di realizzazione borghese propria dei bianchi, fino a costituire paradossalmente il nuovo target economico di un sogno americano cui non ha mai avuto accesso e che di fatto ne alimenta le pulsioni distruttive (Them), peraltro pienamente congrue alla vocazione violenta della fondazione del Paese, con grande allarme delle istituzioni di controllo (FBI) e delle sue programmatiche repressioni di piazza (toccante è la sequela di giovani vittime del poliziesco repulisti fascista e la brutale teoria di sedazione delle rivolte). Sul piano etico emerge inevitabile la mostruosa disumanità ed amoralità di una popolazione occidentale (e americana in special modo) che ha fatto degli ideali di bellezza (bianca!) e di umanità il paravento di una coscienza colpevole difficile da accettare e soprattutto con cui fare consapevolmente i conti; laddove il rimosso consiste nel vivere sul benessere costruito sulle spalle di un popolo di cui si arriva a negare l'umanità fino a concepire un progetto di marginalizzazione urbana quale anticamera di una soluzione finale a lungo agognata. Una cultura sessuofoba e repressiva che sopprime nelle manifestazioni pubbliche i propri sentimenti, evitando il contatto epidermico con l'altro da sé e relegandolo nella cattività sociale alimentata da fantasie di odio e annientamento, ma anche la negazione dell'ibridazione razziale che ha fatto dei figli naturali di padroni bianchi dagli ancillari amori dalla pelle d'ebano, i bastardi reietti di un disonore domestico da segregare negli oscuri scantinati di un immenso paese che non ha in serbo per loro un posto o un futuro migliori. (Lo specchio della vita, Us). Nella famosa intervista che apre e chiude il documentario emerge infine quella strategia culturale di distrazioni e infingimenti che Baldwin scardina abilmente, con la sua brava funzione di controllo e di sedazione a base di rassicuranti format televisivi che insinuano la raggiunta parità sociale, ma prima ancora di un retaggio ideologico che semplicemente nega o minimizza la questione razziale come un fattore secondario nella vita culturale del Paese, arrivando ad ignorare la realtà quotidiana del pericolo costante che corre l'intellettuale nero che, impegnato alla sua macchina da scrivere, dà le spalle alla incombente minaccia bianca e occhialuta appostata dietro di lui.
Un vero futuro per l'America non pare possibile finché non si raggiunge una vera pacificazione sociale e non si demolisce la mostruosa metafora del nero come colore da eliminare e del bianco quale negata rappresentazione di un potere che continua a perpetuare se stesso ed il vuoto pneumatico di una civiltà di bugie.

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