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Il minestrone

Regia di Sergio Citti vedi scheda film

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La recensione su Il minestrone

di MarioC
8 stelle

Si respira una confortante aria pasoliniana ne Il minestrone, un’eco che diventa salutare poiché fa risuonare altissima quella poetica degli istinti primari che ebbe nello scrittore uno dei suoi più sensibili e romantici cantori. Non avrebbe potuto esserci altro e più adeguato nume tutelare e Sergio Citti, fratello di Franco, già Accattone (dunque personaggio pasoliniano a tutto tondo), e che a quella fonte ricchissima di ispirazione si abbeverò, dà compattezza formale ed umana alle pasoliniane ossessioni della borgata, stemperandole e sublimandole in una favola di rovinosa allegria, in un racconto di disperazioni, borgorigmi, fughe e languori, acquoline impossibili e fame. Fame di cibo, fame di vita, fame di senso. Niente altro che sopravvivere è la vita, il soddisfacimento delle necessità andando incontro al surreale, perché la lotta per i bisogni (quando è lotta e deve essere tale, quando non c’è nessuno che quei bisogni te li appaghi gratis e senza sudore) è incontro con l’umanità, un’umanità rancorosa ed accidiosa, inacidita e pronta all’inganno, eppure vitalissima e danzante, cangiante e rumorosa. Umanità in movimento, verso la Mecca delle calorie e dei carboidrati, uomini e donne che sanno di essere già morti ma hanno bisogno di pane e companatico per abbracciare il miraggio della non consapevolezza, per allungare sine die il miracolo della sopravvivenza.

Il cinema di Citti (come quello di Pasolini, naturalmente) è cinema di facce e maschere, di dialetti ed esperanto, di icone della malinconia sorridente di se stessa. Franco Citti, Ninetto Davoli, Roberto Benigni. Due attori pasoliniani ed una maschera di genialità lunare, ancora alla ricerca della propria compiutezza (alias: dominio dei mezzi espressivi) che intraprendono un viaggio senza meta ma con una speranza, una soltanto: mangiare, soddisfare il corpo, lo stomaco, aprire la mente, deviare il corso della povertà e la valanga della disillusione. Panem et circensem, anche se a volte bastano le briciole rovistate nei bidoni della periferia silenziosa e minacciosamente sdraiata sulle proprie rovine architettoniche e morali, anche se con l’inganno si possono aprire le fauci e, letteralmente, ingozzarsi, per poi cedere alla inesorabile legge del contrappasso: maledetti siano coloro che mangiano ad ufo, condannati siano a vagare tra le lande assolate e desolate del Paese, con l’occhio alla cartellonistica stradale e la bocca perennemente socchiusa, pronta ad accogliere le delizie del caso, a fuggire se necessario, a rinculare nel nulla, forse a restarci per sempre (la scena finale con Giorgio Gaber, pigmalione delle masse vaganti). Viandanti nella polvere, i personaggi de Il minestrone, come Totò e ancora Ninetto in Uccellacci e uccellini, senza corvi da arrostire, senza ideologie da confutare, senza disperati da vessare, ma con la medesima difficoltà a seguire la strada, a vedere oltre questa un fine reale, un traguardo, una stabilizzazione di quelle vite che sembrano assegnate a caso, durante una lotteria di dadi.

Pasolini, Citti e, naturalmente, Cerami che dà composizione poetica e finale alle ossessioni/necessità dei personaggi, che, con la sua scrittura che suggerisce alla fantasia un volo spesso impossibile, o improbabile, li agita e li miscela negli incontri folli, nei lampi di furbizia e nelle miserrime fantasie di gloria calorica. Cos’è la fame se non la compiuta e inconsapevole affermazione di sé dei borghesi piccoli piccoli? La fame non è per il proletariato, che si aggira per l’Italia come un mostro emaciato, che tenta di fare la propria rivoluzione a tavola (esproprio proletario del conto, facciamo il vento, un vento che non depone re o sovrani, più semplicemente soggiace al godimento dei sensi, e per questo è un vento che non porta cambiamenti ma soltanto piccole, contingenti soddisfazioni). Il proletario che ha fame è un piccolo Sisifo, condannato ai corsi e ricorsi storici del senso di vuoto. La fame si sente, ma non si vede (nemico invisibile e subdolo), va e viene, viene e va (il tormento dell’impossibilità perenne e sempre nuova di soddisfarla). Il minestrone è una sporca parabola evangelica senza vitelli grassi. Il metodo per svuotare lo stomaco lo hanno trovato. E quello per riempirlo? Amen.

 

 

 

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