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In nome di Dio - Il Texano

Regia di John Ford vedi scheda film

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La recensione su In nome di Dio - Il Texano

di mck
9 stelle

Una ninna-nanna: assieme a “It's a Wonderful Life” e a “Trading Places”, uno dei tre migliori film natalizi mai girati.

 

 

Questa è all’incirca la 5ª volta che assisto a “3 Godfathers”, e mentre butto giù queste quattro righe la cosa che ancor più mi colpisce, così come accadde in quella prima occasione da ragazzino, probabilmente su Rai 3, oramai trent’anni fa, è lo schiaffo che John Wayne (Robert - spoiler: Marmaduke - Sangster Hightower) regala a una copia tascabile della Bibbia (e lungo il corso del film la getterà lontano con disprezzo per ben altre due volte) che Pedro Armendáriz (“Pedro Encarnación Arango Escalante y Roca Fuerte, su servidor, Señora!”) sta maneggiando cercandovi risposte pratiche tra le quali una non metaforica retta via del ritorno (“A nord, al Cairo? A nord-est, a Damasco? O a est, a New Jerusalem?”, lo schernisce the Duke), ed è normale, dato che quella scena…

[così come le impressioni più fugaci di Harry Carey, Jr. (William “the Abilene Kid” Kearney), qui al suo primo ruolo importante, da co-protagonista, che stacca picchiandoli sulle rocce i tacchi degli stivali per così poter meglio attraversare l’asciutto letto del bacino salino-endoreico di Badwater, o lo stesso Pedro Armendáriz che, durante la traversata, si sgancia il pesante cinturone lasciandolo cadere a terra per avere il passo più leggero tra le riarse zolle esagonali di NaCl cristallizzato: e ad un certo punto, poi, sarà John Wayne a consegnarli la propria di pistola col pretesto di potersi difendere dai coyote, ma in verità per consentirgli, con la sua gamba spezzatasi rotolando stremato da una piccola scarpata con in braccio il neonato infagottato (i bambini so’ de gomma... e li bambolotti pure), di scegliere una morte meno dolorosa di quella per sete, azione che l’attore di Ciudad de México compirà realmente tre lustri dopo, a poco più di cinquant’anni, ammazzando il cancro prima che il cancro uccidesse lui]

…è lì apposta per quello: essere ricordata, oltre che, in quel che ne segue, rappresentare, in piccolo, l’epitome dell’intero film western-picaresco: si passa in una frazione di secondo dal dramma tragico alla commedia slapstick & androgino-screwball: così è la vita.

 


“Welcome è più amichevole di Tarantula, giusto, Kid?”

Situato tra il primo (“Fort Apache”, 1948) e il secondo (“She Wore a Yellow Ribbon”, 1949) capitolo della cosiddetta, e mai progettata come tale, Cavalry Trilogy, e frutto di un mese di riprese nella Death Valley del Mojave Desert spazzato da insistenti folate del Santa Ana (e delle turbine delle macchine del vento), “3 Godfather” (1948), che nemmeno compare, se non di sfuggita e succedaneo ad altri, in “A Job of Work”, il corpus centrale (ovvero l’intervista durata una settimana che il regista di “Adele H.” e “la Chambre Verte” fece a quello di “the Searchers” e “the Man Who Shot Liberty Valance”) del “John Ford” (1967, 1978) di Peter Bogdanovich, è l’auto-remake di “Marked Men” (titolo modificato dalla produzione per la distribuzione, mentre quello di lavorazione era the Gift of the Desert) di trent’anni prima (“Ricordo quel film molto bene. È un po’ il mio preferito. […] Mi piaceva il soggetto. Ecco perché chiesi di rifarlo dopo diversi anni.” - J.F. a F.T) con Harry Carey [ovviamente sempre tratto dal quasi omonimo - “the Three Godfathers” - racconto mitopoietico di Peter B. Kyne pubblicato originariamente sul Saturday Evening Post di Indianapolis alla fine del 1912 che prima e dopo ispirò molte altre pellicole: da D.W.Griffith (“the Sheriff’s Baby”, 1913) a William Wyler (“Hell’s Heroes”, 1920), passando per Richard Boleslawski (“Three Godfathers”, 1936) e giungendo al capolavoro di Satoshi Kon (“Tokyo Godfathers”, 2003), che in vece dell’asino apparito da un Deus ex Machina dell’Arizona riveste il “miracolo” con un atto di sospensione della forza di gravità], cui questa pellicola è dedicata (1878-1947) alla memoria: “Bright star of the early western sky…”, e che a sua volta era già il rifacimento di una precedente (un 6 rulli perduto del 1916) trasposizione della novellette di Kyne, della quale portava il titolo, ad opera di Edward LeSaint e con lo stesso Harry Carey come protagonista.

 


“Penso che quel pivello sia morto. Ma continuerà ad uccidere.”

Prodotto da Merian C. Cooper per la MGM con lo stesso John Ford e la sua Argosy, sceneggiato da Laurence Stallings e Frank S. Nugent, fotografato da Winton Hoch (1.37:1 in Technicolor: una panoramica a schiaffo di 45° su cavalletto verso destra, una fantasmatica carrellata in spelonca su binari anch’essa destrorsa e un orizzonte quasi sempre molto alto), montato da Jack Murray e musicato da Richard Hageman (più le diegetiche raffiche del precedente e successivo jorisivensiano vento), è completato nel cast, splendido come il trio di protagonisti, da Ward Bond (lo sceriffo Perley 'Buck' Sweet, aka B. Sweet, ovvero... “sii dolce”: “Sceriffo, li ha mancati!” - “Non mi pagano per uccidere...”), Mildred Natwick [la madre - e sua è la scena nomenomenica (vale a dire… madre) della pellicola - del piccolo Robert William Pedro Hightower: beh, sempre meglio di Gaspare Melchiorre Baldassarre Marmaduke Hightower, no?], Jane Darwell, Mae Marsh, Dorothy Ford, Hank Worden, Charles Halton e, in un piccolo ruolo, Ben Johnson.

 

“Bright star of the...

“...early western sky.”


“Il caso è chiuso. Il bar è aperto.”

Con una postilla mi verrebbe quasi da fantastoricizzare uno dei più “famosi” blooper della storia del cinema, ammantandolo di una consapevolezza martonesca à la “Noi Credevamo” con la sua ecomostruosa contemporaneità veicolata dal cemento costellato di tondini in ferro dell’incompiuto calabro che spunta in pieno Risorgimento, ma l’automobile, l’autoveicolo, l’autovettura, la macchina (se gli Inuit e gli Yupik hanno molteplici parole per definire i vari stati e le varie formazioni di neve e ghiaccio…) che sfreccia sulla freehighway sullo sfondo nel finale alla stazione di Welcome, Arizona, è solo, probabilmente, una Ford.

 


Una ninna-nanna: assieme a “It’s a Wonderful Life” (Frank Capra, 1946) e a “Trading Places” (John Landis, 1983), uno dei tre migliori film natalizi mai girati.

* * * * ¼/½ - 8.75     

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