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La morte e la fanciulla

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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La recensione su La morte e la fanciulla

di logos
8 stelle

A due giorni dall’insediamento, il presidente di una nazione non ben precisata, finalmente istituisce la commissione per la violazione dei diritti umani durante il periodo della dittatura, come promesso durante la sua campagna elettorale. La radio, in una fuga di notizie, conferma che a presiederla sarà l’avvocato Gerardo Escobar, marito di Paulina, che la vediamo preparare la cena. Sono le ore 19, l’atmosfera prelude a inquietanti risvolti, richiamati dai lampi e tuoni e da un incidente a catena sempre trasmesso via radio. La moglie pare un po’ turbata, forse perché il marito è in ritardo per la cena? Forse no, dato che quando arriva, e continua a giustificarsi per il ritardo, piano piano emerge che Paulina non è affatto soddisfatta che Gerardo abbia accettato l’incarico. Perché? Perché quella commissione per lei è uno specchietto per le allodole, una sorta di nuova ferita sul suo corpo già offeso dalle torture inferte durante il periodo della dittatura; Paulina faceva da staffetta per tutti i giornali clandestini, sapeva i nomi di tutti i direttori delle testate, compreso quello di Gerardo, ma non ha mai ceduto alle pressioni della violenza di stato, salvando la vita così anche del suo uomo, che ora, nella neo democrazia, sta andando sempre più su nella carriera.

 

Ma Gerardo si scusa, sostiene che soltanto lavorando all’interno della commissione sarà possibile fare giustizia. Continua a scusarsi su tutto, interessante poi la descrizione del suo ritardo: una ruota bucata, e sotto la pioggia, bagnato fradicio monta la ruota di scorta, ma guarda caso, anche la ruota di scarto è bucata, ed era compito di Paulina ripararla. Al che Paulina gli risponde che è da stupidi non accorgersi di stare montando una ruota di scorta bucata. Mi è rimasto impresso questo gioco sul ritardo perché in esso è racchiuso forse il senso del film: una macchina si può riparare, ma se i mezzi per ripararla sono guasti e non ci si accorge che sono guasti, diventa una fatica inutile, senza senso, e si rimane al punto di partenza, con in più la consapevolezza che non c’è più niente da fare, perché gli stessi mezzi per riparare diventano irreparabili. 

 

E così, per analogia, il dottore che ha dato una mano a Gerardo, che lo accompagna a casa, e poi ritorna con la ruota di scorta, è proprio quell’uomo che Paulina riconosce essere stato il suo aguzzino per eccellenza. Ma è proprio lui? Occorre fargli un processo in seduta stante, affinché dica la verità. Ma è proprio lui? Il processo dovrebbe essere la riparazione definitiva, il riscatto per Paulina. Ma è legittimo il processo? Davvero è un mezzo riparatore, democratico, conforme alla nascente democrazia? Democrazia che come la macchina di Gerardo, forse, non è del tutto funzionante, e non è proprio detto che possa essere riparata con quel processo, che lungi dall’essere democratico sembra assumere i toni della stessa dittatura che gli Escobar avevano combattuto.

 

Fatto sta che in quella casa si svolgerà un vero e proprio dramma a tre: Paulina la giudice, Gerardo l’avvocato difensore, il dottore l’imputato. Interessante notare come tra fitti dialoghi e sguardi, il gioco delle parti assuma via via toni variegati. Il dottore non sembra affatto un colpevole, è gentile, oltretutto aveva soccorso Gerardo ed erano diventati amici. Ma ora eccolo lì: legato a una sedia, percosso e sanguinante. Gerardo vuole prendere le distanze dall’atto violento di Paulina, la quale invece è sicura che quell’uomo sia davvero il suo torturatore, perché lo ha riconosciuto dalla voce, dall’odore del suo corpo, dal fatto che citava Nietzsche. Man mano che il tempo passa, Gerardo oscilla tra le certezze di Paulina e la difesa del dottore, e non sa da che parte stare. Non c’è tempo, bisogna prendere una decisione. Se il dottore confessa e dice la verità, allora avrà salva la vita e non potrà denunciare nessuno perché la sua confessione verrà registrata, altrimenti se è innocente “è veramente fottuto”.

 

Ma quale valore di democrazia si intende realizzare, nel dover ammettere la propria colpevolezza anche se si è innocenti pur di farla franca? E così, con la continuazione del processo, i due coniugi senza volerlo e senza poter altrimenti, finiscono per diventare anche loro imputati di fronte all’imputato. Perché se è vero che l’imputato è davvero colpevole, i mezzi utilizzati hanno ulteriormente lacerato le coscienze degli Escobar, ma se è innocente allora gli stessi Escobar dovranno vedersela con il loro passato resistenziale e la loro attuale falsa coscienza.

 

A ben vedere il problema non è più la verità in sé, ma il processo della verità, processo che nella sua dinamica nullifica la verità stessa, e quel che ne rimane è il punto di partenza, una coscienza imborghesita complice dei suoi aguzzini di un tempo, all’interno di una democrazia conquistata come in una farsa. Una conclusione amara, che mi ha riportato dritto alla grande opera di Pablo Larrain, No – I giorni dell’arcobaleno. Opere estremamente diverse per stile e per tematiche, ma la cui conclusione,  politica e esistenziale, non può permettersi il lusso di concedere spazio a quella liberazione che non c'è.

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